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Rose e Libri 2023. A Verona, un pomeriggio all'insegna delle relazioni, degli sguardi salvifici e della cura di sé.

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È stata un’edizione ricca di eventi e di ospiti importanti quella di Libri e Rose 2023, inaugurata con una maratona di lettura di Marcovaldo di Italo Calvino, di cui si festeggiano i cento anni dalla nascita, e proseguita con presentazioni che hanno avuto luogo nell’arco di tre giornate tra la Biblioteca Civica, la Società Letteraria e il Conservatorio di Verona. Tra i partecipanti, Marco Missiroli con Avere tutto; Marco Balzano, che porta ben due opere, Quando tornerò e la nuova raccolta di racconti Café Royal; Giulio Guidorizzi, che in Pietà e terrore rilegge undici tragedie greche, o ancora il premio Pulitzer Jhumpa Lahiri, che presenta i suoi Racconti romani.

Impossibile proporre in questa sede una rassegna esaustiva degli incontri. Mi limiterò a parlare di alcuni tra quelli che hanno chiuso, in bellezza, la manifestazione.
Io ho presenziato soprattutto per Daniele Mencarelli, di cui amo profondamente le opere e che finora avevo incontrato soltanto con la mediazione di uno schermo. L’ho trovato, di persona, timido come lo ricordavo, con la forza di parole che escono di fronte alle domande sempre asciutte, e sempre centrate. L’ha guidato una bravissima Annarita Briganti che, confesso, non conoscevo, e di cui dopo oggi mi sono ripromessa di recuperare le opere. È lei a suggerire che i temi all’interno di Fame d’aria (recensito qui) siano due, di cui il più rilevante è il meno evidente. Da un lato abbiamo infatti il rapporto di un padre con il figlio gravemente disabile, autistico a basso funzionamento. Mencarelli inizia sollevando il problema, sociale e politico, di come, nonostante l’universalismo e l'equità del diritto alla cura tutelati dall’articolo 32 della nostra Costituzione, 
la sanità pubblica negli ultimi anni si sia occupata sempre meno della cura dei cittadini sotto il profilo della salute mentale. Ai reparti di psichiatria è destinato poco più del 3% dei finanziamenti e lo Stato si sottrae continuamente ai suoi doveri nei confronti di molte situazioni critiche. Jacopo e Pietro si inseriscono in questo buco nero del sistema, in cui una famiglia monoreddito, pur non partendo da una situazione d’indigenza, si trova a dover investire tutto per garantire il necessario a un figlio bisognoso di assistenza continua. Una delle domande che Briganti pone a Mencarelli riguarda la differenza tra compassione e pietà: la prima, commenta l’autore, è un sentimento fondamentale per l’individuo, non è negativo, non è un disvalore come spesso sembra al giorno d’oggi. C’è chi dice di non volere la compassione di nessuno, spiega, “io invece voglio la compassione di tutti, è la compassione che ci fa uomini”. Diverso è invece il pietismo con cui vengono trattate alcune situazioni di grave difficoltà, esibito da molti personaggi che nel romanzo incontrano Jacopo. Non a caso il secondo tema dell’opera, per Briganti il primo, è quello del corpo, del modo in cui si interfaccia a malattia e povertà. Mencarelli ribadisce di voler mettere al centro della sua narrazione l’autismo reale, non l’immaginario fasullo che troppo spesso lo circonda, per disinnescare il “corredo retorico furbo” sfruttato talvolta anche dalle istituzioni. A dover cadere prima di tutto è la retorica dell’eroismo, che occulta sotto un velo famiglie che in realtà rischiano in ogni momento di esplodere. Abbandonate a loro stesse, dimenticate, vacillano perché “chi è abbandonato si abbandona”, come capita anche a Pietro in Fame d’aria. Pur non facendo mai mancare nulla al figlio, che continua ad accudire, le sue parole e i suoi pensieri rivelano una profonda stanchezza, uno scollamento che lo consuma e rischia di sopraffarlo. D’altronde, proprio nella possibilità di essere visti e riconosciuti in questa condizione prossima alla resa, si nasconde anche la speranza, che è un elemento fondante di questo come dei suoi romanzi precedenti: “sono un uomo che non riesce a disperare totalmente”, osserva. Per lui la speranza è infatti fondamentale per non sprofondare nel nichilismo radicale, nonché un’espressione del suo essere un “aspirante credente”.

Dopo l’intensità della presentazione di Mencarelli, una ventata d’allegria invade lo Spazio Nervi della Biblioteca Civica, sempre più gremito. Chiara Moscardelli è per me una grande scoperta: ironica, travolgente, ha parlato di un gatto obeso dal nome altisonante, che con la sua aria sdegnosa si è infilato in casa sua alle soglie del lockdown e ha cambiato di molto la sua prospettiva sull’esistenza, e non solo facendola entrare d’ufficio nel team agguerrito delle gattare. Io&Rhett, ben più di una semplice storia di amicizia tra un felino e il suo umano, è l’occasione per trattare con leggerezza di temi importanti: la cura del sé, il darsi valore, la selezione accurata delle persone di cui circondarsi… concetti che un gatto rosso, che si ama, e quindi è selettivo nelle relazioni, costringendoti a impegnarti per farti amare e accettare da lui, può insegnare più esplicitamente di tante esperienze passate. Al contempo, anche i tempi di pesantezza possono essere mutati in risorse, in occasioni da far fiorire per fiorire a propria volta. Lo scherzo e l’autoironia, osserva Moscardelli, sono dei grandi pregi, dei filtri trasformativi applicati al reale, ma possono diventare anche un alibi che impedisce di guardarsi in profondità. Ben venga allora qualunque occasione per scoprirsi di più e magari, perché no, tener traccia sulla pelle del proprio cambiamento. Il monito portato da Rhett, l’invito alla cura di cui diventa metafora, si fa ponte, più che trampolino, verso l’attesissimo incontro successivo.

Non si può negare che molti dei presenti che affollano la Biblioteca Civica siano qui da ore principalmente per questo: Stefania Andreoli presenta il suo Perfetti o felici, e l’utenza è così numerosa che tanti sono costretti a restare fuori dalla sala, o addirittura ad ascoltare dalla strada antistante. Seguendo l’attività della psicoterapeuta da un po’ sui social, ero curiosa di sentirla parlare dal vivo, di ritrovare quella lucidità che si percepisce sempre nei suoi interventi radiofonici, nei post su Instagram, o nelle interazioni fittissime con i suoi follower. Pur collocandomi proprio sulla soglia (in uscita, non in entrata, ahimè) della fascia d’età da lei definita come dei “giovani adulti”, mi sono sentita toccata e rappresentata dalle sue parole, tanto da trovarmi, del tutto inaspettatamente, in coda per il firmacopie di un libro che non avevo intenzione di comprare. Le sue parole hanno creato un’urgenza, rivelato un bisogno, che ritengo sia lo stesso di cui parla quando cita il senso di comunanza, o di comunione, che si crea tra tutte quelle persone, numerose, che sentono di corrispondere al ritratto da lei tratteggiato e che sono alla ricerca di un senso, o solo di un riconoscimento. Un esercito, anche se la metafora bellica vuole rimandare soltanto al numero, non certo a una cifra d’aggressività. Anzi, il quadro che lei fornisce dei giovani adulti è quello di una generazione migliore di quella che l’ha preceduta. Perfetti o felici nasce dalla constatazione, semplice e diretta, che “non c’era altro libro possibile da scrivere”, e che forse questo avrebbe dovuto addirittura precedere Lo faccio per me, dedicato alla dimensione del femminile. La necessità di cui racconta le deriva dalla pratica clinica, che non ha mai abbandonato e che le ha concesso una visione “anticipata” su determinate situazioni, costituendo quasi un osservatorio psico-sociologico. La volontà di scrivere è stata acuita, spiega Andreoli, dal percepire “un deserto intorno”: nessun altro pareva rilevare la stessa emergenza, che cresceva proprio mentre i media e in generale il mondo adulto davano di questi giovani definizioni sempre meno lusinghiere, spesso antitetiche rispetto alla realtà che lei si trovava continuamente di fronte. I giovani adulti levavano infatti una voce comune “portatrice di messaggi belli, edificanti, reazionari
Si tratta di un movimento collettivo che non sa di esserlo: Perfetti o felici ha anche avuto, come un segno di riconoscimento condiviso, la funzione di rivelare questi giovani gli uni agli altri, di farli sentire meno soli. Il tema della solitudine, insieme a quello della responsabilità dei genitori e degli adulti in senso lato, è uno dei principali fatti emergere dalle belle domande di Annarita Briganti, ancora in veste di moderatrice. La solitudine, infatti, non è un disvalore di per sé. Lo è se viene percepita come esito di un primato in negativo: sono il primo, il principe del fallimento, incapace di raggiungere quella felicità e quel successo a cui mi hanno detto che dovrei ambire. Se frutto di un percorso di consapevolezza, la capacità di star soli significa essere capaci di stare con sé (solo se io non ci sono, o non so chi sono, la solitudine mi fa paura, perché a quel punto davvero non c’è nessuno). In coda all’incontro, Briganti chiede ad Andreoli come sia possibile chiedere aiuto. La psicoterapeuta spiega che rivolgersi agli estranei è non solo più facile, ma anche più funzionale, per la possibilità di trovare in chi non fa parte della cerchia ristretta, e quindi spesso risulta troppo coinvolto, uno sguardo generativo. È nel riconoscersi nell’altro, nel diverso da me, la possibilità di salvezza, ma anche forse la risposta a quella ricerca di un “nuovo, personale modo di vivere, più dignitoso, di qualità, più autentico”, condotta massivamente dai giovani adulti. Sull’idea degli incontri salvifici, degli sguardi che cambiano la percezione che si può avere di sé, si chiude un incontro veramente intenso, il cui effetto si può percepire chiaramente nel coinvolgimento, la partecipazione e a tratti la commozione di buona parte del pubblico in sala.

Carolina Pernigo


Foto a cura dalla Redazione