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"Un peso a forma di croce". La storia di una paternità sofferta in "Fame d'aria", il nuovo romanzo di Daniele Mencarelli

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Fame d’aria
di Daniele Mencarelli
Mondadori, 2023

pp. 180
€ 19,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

  
Si possono controllare, con più o meno finezza, i movimenti del corpo. Chiedere a un braccio di allungarsi, agli occhi di aprirsi, ma nulla è veramente nostro di quello che ci vive dentro. (p. 85)


C’è qualcosa che disturba fin dall’inizio del nuovo romanzo di Daniele Mencarelli. La stessa sensazione di disagio, di straniamento, del resto, si avverte già di fronte alla copertina: da un lato un padre che trasporta un figlio, ma che ne appare quasi soverchiato, sopraffatto; dall’altra un ragazzo che viene portato come fosse un ciocco di legno, il piede senza una scarpa e un lembo di pelle dove la maglia si accartoccia che feriscono la vista, smuovendo qualcosa di irrazionale, un istinto di protezione verso quella che appare una fragilità tradita. Nell’immagine, i due guardano in direzioni opposte, ma sembra che non vedano. Si denuncia fin da subito un’istanza di incomunicabilità.
Nell’opera, il padre è Pietro, il figlio Jacopo. Diciottenne, è affetto da una severa forma di autismo a basso profilo di funzionamento: “Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso” (p. 27), ripete insistentemente il genitore a chiunque mostri interesse, con lo scopo di scioccare, mettere a tacere, sopprimere la discussione. Il suo stesso sentire, del resto, è ottuso, attutito da una rabbia sorda e cieca. Non c’è, in questo padre, che un ostinato rancore rispetto alla vita che è costretto a condurre, e di cui ancora non sappiamo quasi nulla, ma che si mostra nei suoi effetti annichilenti. Non è solo il giovane ad apparire svuotato di tutto, in questi capitoli iniziali in cui ci rendiamo conto che gli eventi più salienti sono già alle spalle di Pietro, che lo strappo è avvenuto ben prima della prima pagina. La sua esistenza è un “inferno abituale”, un “film dell’orrore”, la pace un’opzione dei pochissimi istanti tra il sonno e la veglia, la dimensione dell’oblio. 
Sarebbe bello poter dire che un attimo, almeno uno, è risparmiato.
Un attimo d’amore, uno solo, come un brillante incastonato nell’anello.
Ma sarebbe falso.
Semplicemente.
Dal giacimento di pietra preziosa è stato strappato tutto. Negli altri umani, fortunati, la vena da cui estrarre si rigenera, anche di fronte al dolore e alla malattia, e anche in Pietro è stato così per giorni, anni.
Poi il tesoro si è prosciugato.
Sino a quello che rimane ora.
Come un cratere. Vuoto. (p. 32)
Quando Fame d’aria inizia, lo vediamo alle prese con un guasto all’auto, avvenuto nei pressi di un paesino del Molise. Sta andando verso Marina di Ginosa, per festeggiare il suo anniversario di matrimonio, dice, ma la storia fin da subito tiene poco: l’uomo ha pochi contanti con sé, le sue carte sono bloccate, non vuole avvisare nessuno e non può permettersi soluzioni che non siano di tamponamento di una situazione critica. È forse proprio la presenza del figlio, questo ragazzo alto e bello, ma privo di qualsiasi slancio o reazione (“Jacopo è un angelo caduto. Jacopo non è niente”, p. 31) a muovere la compassione, l’umana gentilezza di alcuni degli abitanti di Sant’Anna del Sannio: il meccanico Oliviero, che gli offre un prezzo di favore per recuperare una frizione di seconda mano; Agata, che riapre appositamente per loro una stanza della sua pensione dismessa; Gaia dal sorriso che salva… il Molise non esiste, ricorda scherzando la ragazza, ma è proprio in questo luogo sospeso, in cui anche il tempo pare congelato, che è possibile la scintilla di un cambiamento. Questo però si avvia solo nel momento in cui si ha il coraggio di smettere di mentire, di ammettere la propria verità.

Mencarelli non indulge, in quest’opera come nelle precedenti, in alcun compiacimento retorico: sulla pagina c’è tutta la miseria dell’esistenza, ma anche la faticosa lotta per la resistenza e la ricostruzione. Non c’è mai il desiderio di fare dei suoi personaggi dei portabandiera, veicoli di messaggi semplici o semplicistici. C’è, semmai, come anche nelle sue opere precedenti, l’implicito invito a sospendere il giudizio, a evitare il pre-giudizio. Non è casuale del resto neanche la frase riportata in epigrafe, “Dio è un altro”, che stravolgendo l’originale verso di Rimbaud ci riporta alla spiritualità profonda, viscerale, dell’autore, che emerge sempre nella relazione dell’umano con altri esseri umani. Dio è nella capacità di porsi in sintonia con l’altrui sentire, di farsi cassa di risonanza per il dolore, per l’amore, per la pietà. Spesso il riconoscimento passa per canali impervi, o per vie improbabili (“Non glielo dirà mai, neanche sotto tortura. Ma Pietro ad Agata la rispetta. L’unica gerarchia che vale per lui è quella della fatica e della sofferenza, e lei i galloni se li è meritati in battaglia”, p. 102). Talvolta è unilaterale, si scontra con le resistenze di chi ha il proprio fardello da portare e investe in questo unico scopo ogni briciolo di energia che gli resta. Pietro è un personaggio sgradevole, che confessa (dapprima solo a se stesso) dei sentimenti quasi indicibili – come indicibile ad alta voce è il nome, crudele, con cui appella Jacopo, o la violenza verbale con cui a tratti gli si rivolge, certo della sua incomprensione.

Fame d’aria mi pare il più difficile di tutti i romanzi scritti finora da Daniele Mencarelli. Pur essendo un’opera di carattere non biografico, ha la stessa cifra di verità, di umanità delle precedenti. Si articola in quattro atti, come un copione teatrale, come una tragedia. Ciascuno permette di scendere uno scalino in più nella profondità dell’animo di un padre che non riesce più a provare quello che dovrebbe, prova quello che non dovrebbe, e si trova in ogni istante vicino al limite estremo.
Ancora una volta, Mencarelli non ha paura di ricorrere a quel lessico emotivo essenziale così difficile da utilizzare senza svuotarlo di significato: pace, bellezza, amore, dono, ma anche malattia, disperazione, odio, fallimento. L’esito è quello di una catarsi, che lascia i lettori al tempo stesso vuoti e pieni, come i personaggi. Chiunque abbia letto La casa degli sguardi (recensito qui) o Tutto chiede salvezza (lo trovate qui) sa che c’è sempre un momento nelle narrazioni di questo autore in cui il protagonista si trova nudo e inerme di fronte alla potenza e alla bellezza della vita che si dibatte, si nega alla resa. È così anche per Pietro, e ancora una volta l’attesa non delude.
Solo a posteriori si può allora ritornare sull’immagine di copertina, leggerci qualcosa di diverso, un farsi carico dell’altro nella sua fragilità, nelle sue impossibilità. Un rialzarsi in piedi e riprendere un cammino che pareva interrotto, senza esserlo davvero.

 
   Carolina Pernigo