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Curare il Jirro ricucendo il tempo della conoscenza: l'insegnamento in "Cassandra a Mogadiscio", il nuovo romanzo di Igiaba Scego

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Cassandra a Mogadiscio
di Igiaba Scego
Bompiani, febbraio 2023

pp. 364
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Jirro in somalo significa “malattia”, letteralmente è così, ogni vocabolario ti riporterà questa spiegazione. Persino Google Translate.
Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, post guerra.
Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente.
Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa, e quelle dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov che dalla Transnistria sono sbarcati direttamente al porto di Mogadiscio. Per annientarci. (p. 17)
Io non avevo mai sentito la parola jirro prima d’ora, né la parola aabo, né ayebo né tantomeno hooyo. Eppure il loro significato era dentro di me come è dentro ogni essere umano. Aabo padre, ayebo nonno, hooyo madre. Jirro invece non è così facile da tradurre, perché non tutti gli esseri umani sono crepati. Ma chi ha vissuto la diaspora somala, con quella crepa ci è nato. Igiaba Scego, in un’affettuosa lettera aperta alla nipote Soraya, racconta la sua storia, quella della sua famiglia e quella della Somalia, attraverso gli archivi di memoria custoditi principalmente in una remota parte di cuore della madre, ma attraversati dai ricordi di nonni, zii, cugine, parenti lontane, a volte vivide nella sua memoria, altre conosciute di recente, altri ancora scomparsi talmente tanti anni fa che l’unica cosa che non si perde nei decenni è il rumore fragoroso di una risata brillante.

Io della Somalia non ho mai saputo nulla. Ero ignorante, nel vero senso etimologico del termine, perché non ero a conoscenza della sua storia, dei suoi dolori, delle sue crepe. Non sapevo della dittatura, della violenza, delle terre brulle abbandonate, dei dromedari assetati. Non sapevo che intere famiglie sono state divise per decenni, non sapevo che madri non hanno visto i loro figli per una quantità di tempo che fatico ad immaginare e scrivere; non sapevo che alcuni non si sarebbero più incontrati.

È vero, tutte le guerre si somigliano, tutte comportano un baule di sofferenza che il cervello vorrebbe tanto lasciare in una cantina buia e umida senza doverlo mai più rispolverare e riaprire. Forse, però, questa guerra di cui conoscevo solo superficialmente l’esistenza, per frammenti di frasi ascoltati da qualcuno o qualcosa, la sento più vicina a me: mi sento più coinvolta e dunque ancor più colpevole di non averla conosciuta prima. Sì, perché l’Italia è uno degli attori principali di quella guerra lacerante, che ha squarciato e lasciato in sospeso il tempo e lo spazio. L’autrice ce lo presenta come un attore contraddittorio, amato e odiato: se da un lato gli italiani sono gli ex colonizzatori, quelli che a Mogadiscio hanno seminato di violenza e terrore le rosse terre somale (o almeno così me le sono immaginate), è altresì vero che nella famiglia di Scego l’italiano è anche lingua madre, lingua che può tradurre l’amore di una nonna per una nipote lontana, Soraya, che durante le sue videochiamate in Italia sente il bisogno di imparare quella lingua che suona tanto strana ma che le permetterebbe di conoscere la storia della sua famiglia e di comunicare l’amore senza bisogno di traduzioni. Anche se l'amore non ha lingua, non ha alfabeti.
È strano: la tua ayeyo ha più fiducia nella lingua italiana, la lingua degli ex colonizzatori, che nel somalo natio. (…)
Dobbiamo fare presto, se vogliamo passarti i nostri saperi. Se vogliamo davvero spiegarti il Jirro, dobbiamo fare presto. (p. 20)
Sembra non esista mai un modo per sfidare il tempo, per corrergli incontro e salvare quel che si può, ciò che è necessario per salvarsi e salvare chi amiamo.

Igiaba Scego con questo suo ultimo romanzo, candidato per il Premio Strega, parla a cuore aperto alla nipote, le tramanda in un’urgenza implacabile i saperi, i vissuti della sua famiglia, con la costante paura di vederli svanire tra gli alfabeti perduti e forse ritrovati della madre. I momenti di gioia, come hooyo che cuce e ricama distratta ogni tanto da un timido raggio di sole che illumina le venature vegetali sul balcone; e il dolore che si è fatto un nido negli stomaci della famiglia, per una guerra che ha distrutto ogni età.

Attraverso questo racconto, in cui i toni dolci e amorevoli rivolti a Soraya si mescolano all’asprezza necessaria per raccontare la diaspora, Igiaba Scego richiama tutte e tutti noi alla nostra consapevole responsabilità: conoscere. Perché conoscere significa curare quel Jirro. Ci richiama all’empatia che dovrebbe essere propria dell’essere umano e di cui troppo spesso ci dimentichiamo, alla dolorosa presa di coscienza che sono esistiti e continueranno a esistere destini molto più crudeli di quello che immaginiamo, cui non è più il tempo di dare le spalle.

Conoscere significa vedere, significa curare, significa provare a ricucire ferite non nostre ma che sentiamo come tali.


Lidia Tecchiati