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Camminare in salita è un'avventura. Alberto Rollo, ne "Il grande cielo" ci racconta la genesi del suo amore per la montagna

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Il grande cielo
di Alberto Rollo
Ponte alle Grazie, 2023

pp. 195
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Ho iniziato Il grande cielo di Alberto Rollo piena di aspettative e l'ho terminato con molte conferme e qualche piccola perplessità. Prima fra tutte, la conclusione... E se l'autore si fosse fermato quattro righe prima? Sarebbe stata una chiusa potente, forse sentimentale. Troppo? Chissà ... sarà per questo che Rollo ha sentito il bisogno di riportare tutto alla concretezza di una voce, di un episodio. 
Ma partiamo dall'inizio. Il grande cielo di Alberto Rollo è esattamente quello che promette il sottotitolo, l'Educazione sentimentale di un escursionista. Ma non di un escursionista qualsiasi. 
Per chi non lo sapesse Rollo, nel campo dell'editoria italiana, è una figura a tutto tondo: letterato, scrittore, traduttore, critico, giornalista, esperto di teatro e di musica. E di montagna. Quella montagna che l'ha affascinato fin da piccolo, fin da quando il padre, durante le gite in moto, con quel Guzzi rosso fuoco che fa bella mostra di sé in copertina e che fa tanto anni 60 (lo rivedo nelle foto di mio nonno, tale e quale), gli mostrava le vette lontane, là oltre le Prealpi. Il piccolo Alberto, rapito dall'immagine delle cime che la moto del padre non raggiungeva mai, a casa ripercorreva sull'atlante geografico l'intera linea delle catene montuose, non pago della vaga promessa del genitore di portarlo in un tempo più adatto. E con calzature più adatte, i tanto vagheggiati scarponi da montagna.
Con il padre, poi, Alberto ci andò poco, non quanto avrebbe voluto, ma in compenso non ci sono valli, sentieri, crode che Rollo nella sua vita non abbia percorso, dalle Marittime alle Giulie, vien da dire, seguendo quella frasetta che a scuola ci aiutava a tenere a mente il dispiegarsi delle Alpi da Ovest a Est, "ma con gran pena le reca giù". E in questo libro ripercorriamo la genesi di quel cammino, l'accostarsi dell'autore al mondo delle terre alte.
Un avvicinamento che è sia fisico, nei ricordi di escursioni, ascese, salite, sia letterario, con l'omaggio dovuto ai tanti autori attraverso i quali Rollo ha approfonditola il concetto di montagna, da Mario Rigoni Stern a Clemente Rebora, da Arthur Rimbaud a Rainer Maria Rilke, passando per Tabucchi, Cognetti, Corona, Rumiz, Maggiani, De Luca, Buzzati, Antonia Pozzi, Lalla Romano. Scrittori amati, letti, ricordati e spesso anche conosciuti personalmente. Perché Rollo, nella sua vita professionale, ha lavorato per Editori Riuniti, Mondadori, Feltrinelli, Baldini-Castoldi, insomma il fior fiore dell'editoria italiana. Un humus letterario che rende fertile la sua scrittura. Tutti gli autori citati (sicuramente ne ho dimenticato qualcuno perché il "larario" di Rollo è davvero ampio) sono stati per lui veri e propri ometti di pietra.
Avete presente quando, camminando in montagna, a un certo punto il sentiero si biforca? A indicare la giusta direzione, spesso, ci sono loro, gli ometti di pietra, quelle piccole piramidi di sassi, un segnale che ogni escursionista riconosce. Seguendo la piramide, o gli ometti di pietra, come li definisce Rollo, non ci si può sbagliare.  E se gli scrittori citati rappresentano tanti fari culturali, a svolgere il ruolo di ometto di pietra nell'educazione montanara di Rollo, ci stanno anche la zia Paola, grande camminatrice, Anna, l'amica solitaria che ama conquistare le vette in silenzio, accompagnata soltanto dal suo zaino, la moglie Rosaria, la figlia Elena, il cane Billy, gli amici di una vita. E ancora, i membri del Gruppo Rollo, un insieme variegato e composito di amici perché, nelle estati di tanti anni fa, era uso raccogliere compagnie diverse e partire, magari senza nemmeno conoscersi (una volta io ebbi tra i compagni di un viaggio in Grecia, nel 1993, un ragazzo ceco mai visto prima, mai più rivisto dopo e, paradossalmente, mai visto nemmeno durante la vacanza perché appena arrivati ad Atene si eclissò e lo ritrovammo sul traghetto del ritorno). Tutto questo per dire che l'educazione sentimentale di Rollo alla montagna si compone di libri e di vita. Che vanno di pari passo.
Forti di questo bagaglio, camminiamo insieme all'autore e ai suoi compagni, letterari e non, per luoghi montani che hanno avuto un ruolo pedagogico: l'infanzia a Sormano, nelle Prealpi, dove tutto odorava di latte e di fieno, le estati ad Antagnod, in Valle d'Aosta, le Dolomiti, la Val di Funes, Cogne, i sanatori della Valtellina (e come non pensare alla Montagna incantata di Thomas Mann?), la mummia Ötzi in Val Senales, le tracce della Grande Guerra, che per vasti tratti fu la Guerra Bianca, la Lunigiana, che è diventata casa, la Val Codera e l'inquietante nube di Ĉernobyl di cui allora, nel 1986, si temeva il passaggio. Richiamo questi episodi soltanto per citare alcuni sentieri del viaggio raccontato ne Il grande cielo. Un libro che indiscutibilmente parla di montagna, ma sa anche raccontare di città. E nello specifico, di Milano. Che, d'altra parte, è la seconda metà di vita di Rollo. Parla della Milano degli anni 50-60, colta in qualche frammento visivo di lavorio e trasformazione: la via Mac Mahon al fondo della quale si vedeva l'arco delle Prealpi, una Milano ancora segnata dalla guerra, ma fervida di lavoro e di futuro.
Insomma, tutte le conferme che cercavo da Rollo le ho trovate. E allora quali sono le perplessità a cui accennavo all'inizio? Sostanzialmente due, che alla fine convergono. Ci sono pagine nelle quali sembra che Rollo si ripieghi su se stesso, che rincorra immagini, ricordi e pensieri in un luogo della memoria o del cuore che risulta poco accessibile al lettore. Sono quelle pagine meno legate a eventi e luoghi concreti, ma dove l'autore riflette a voce alta, dando corpo a un'immagine astratta della montagna o al sentimento, più spesso malinconico, che la montagna genera in lui. Spesso sono le stesse pagine che scontano una ricerca, a volte un po' troppo impegnata, della bella parola, dell'espressione forbita, una scelta stilistica che mi pare un po' stridere a confronto della ruvida asciuttezza che l'ambiente montano predilige.

Mi sono trovato spesso a misurare certa mia propensione apocalittica - tutto sprofonda e finisce, l'esistente è, con furia idiota, condannato dal suo domani - a luoghi esposti al palpitare di un affetto, a luoghi che chiedono, come fossero essi stessi immateriata preghiera, di essere preservati, E non è un caso che la trina immagine di Elena che scende incurante ripeta con insistita dolcezza, senza la retorica dei salvatori della Terra, di non toccare quella scena giovane per sempre (p. 33).

In definitiva, cos'era la montagna? Lo spazio aperto che si spoglia e guadagna quota nel sole, dentro la vastità del cielo? O questo oscuro budello scavato fra gli alberi - svettanti alcuni verso uno di quei tagli alti sopra di me, torti, bozzuti, altri, tutto uno sbracciarsi di rami, un affilarsi di artigli. Dunque, non c'è cima che si porti appresso questa miniera di verde luttuoso (p. 41).

A parte qualche digressione che vira verso le altezze sideree, Il grande cielo si inscrive tra i libri che sanno davvero parlare a chi la montagna la conosce, la ama e la percorre, un lettore che, riconoscendosi parte di un insieme, potrà trovare in queste pagine una miriade di punti di riferimento, di "ometti di pietra", utili a guidarne il cammino.

Sabrina Miglio