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Il lusso e la tragedia nel DNA di una ricca famiglia creola: "I violini di Saint-Jacques" di Patrick Leigh Fermor per Adelphi

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I violini di Saint-Jacques
di Patrick Leigh Fermor
Adelphi, marzo 2023

Traduzione di Daniele V. Filippi

pp. 129
€ 18 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)


Nessun estraneo che osservasse la scena come stavo facendo io avrebbe potuto sospettare che su quella casa incombessero, proprio in quel momento, la prospettiva di un duello, l'inizio di una lunga e inconciliabile faida che avrebbe spaccato l'isola, la minaccia del suicidio del figlio ed erede, la fuga d'amore e forse il matrimonio bigamo della figlia maggiore e il rischio universale della lebbra. Avvertivo una sorta di malinconica onniscienza mentre guardavo il ballo dall'alto, una fosca certezza di essere l'unica persona al corrente di tutti i pericoli e le pene imminenti. (p. 92) 
A parlare è Berthe de Rennes, protagonista e maggiore narratrice di questa novella di Patrick Leigh Fermor edita da Adelphi. L'autore britannico è stato considerato nel 2007 (quattro anni prima della sua morte) come il più grande scrittore di viaggio vivente, famoso per la scrittura di "Mani", un racconto itinerante e descrittivo del Peloponneso.
Ne "I violini di Saint-Jacques" la Grecia torna sotto forma di isola, precisamente quella di Lesbo, dove mademoiselle de Rennes vive da tanti anni in solitudine, passando il tempo a fumare una sigaretta dopo l'altra e a dipingere.
Il suo racconto in prima persona viene scritto in forma di memoir, di ricordo di un fin de siècle in cui Berthe, imparentata ai Serindan, una delle famiglie più influenti dell'aristocrazia creola, viveva sulla piccola isola di fantasia di Saint-Jacques, localizzata più o meno nel mezzo delle Antille Francesi: si trasferisce lì come istitutrice ma presto diventa figura fondamentale per il conte suo cugino, feudatario magnanimo e gioviale, e soprattutto per i suoi figli, Sosthène che s'innamorerà subito di lei, e Joséphine, con cui intreccerà un rapporto al limite tra l'amicizia e l'amore.
Berthe racconta, tra il fumo delle sue sigarette e qualche pennellata sulla tela, la sua vita sull'isola caraibica, i rapporti tra la famiglia Serindan e gli abitanti del posto, la ricchezza e la generosità di un luogo paradisiaco in cui le feste, i picnic, le battute di caccia si susseguono in un'atmosfera estremamente sensuale e affascinante.
Il clou della vicenda si condensa nel ballo di carnevale del Martedì Grasso, un'esplosione di colori, di sfarzo e allegria che contagia tutti: Berthe, con tono nostalgico, ci porterà nella villa della famiglia, nei preparativi frenetici, indugiando moltissimo nella descrizione dei dettagli anche più insignificanti, come il tessuto delle tende, la forma delle ostriche, le acconciature delle signore di classe, i costumi e le maschere voluttuose degli abitanti dell'isola. Nonostante la frenesia e l'ottima riuscita del ballo organizzato dal conte, verranno pian piano a galla tanti piccoli imminenti disastri, avvolti da una minaccia di proporzioni bibliche che nessuno riesce a prevedere.
Il filo che conduce a questa minaccia (e alla sua salvezza) è l'amore di Berthe per Joséphine: la seguirà in una frenetica corsa senza essere consapevole che quella scelta le salverà la vita. Il finale della novella è un vortice di grande pathos e tragedia, raccontato sempre con una dovizia di particolari quasi petulante: una delle caratteristiche della scrittura di Fermor è difatti la sua capacità di analizzare e descrivere gli ambienti, la natura, le fattezze delle persone, persino delle piante, con uno sfarzo narrativo difficilmente ignorabile, tanto che è immediato immaginare quasi di toccare quegli ambienti, quella natura e quelle persone. Sembra di essere davvero in quel ballo di carnevale, di danzare con gli ospiti, di assistere alla frenesia delle percussioni, di provare reale timore per il destino dell'isola e di tutti i suoi abitanti.
L'anno scorso, quando ero a Dominica e Guadalupa, alcuni pescatori mi hanno raccontato che chiunque percorra la rotta orientale fra le isole in tempo di carnevale può sentire un suono di violini che affiora dalle acque. Come se ci fosse un ballo in grande stile sul fondo del mare. (p. 126)
La novella è corta ma densissima al tempo stesso: a voler semplificare molto la scrittura, sarebbe potuto essere niente di più che un racconto, ma non sarebbe stato più in stile Fermor. Avremmo letto la storia di un'isola "infilata come una perlina sul sessantunesimo meridiano" senza indugiare sulla sua conformazione, sulla sua natura rivelatrice e sulle vite spensierate dei Serindan e di Berthe.
Per il suo stile quasi lussuoso e la sua vocazione lirica (tant'è che davvero dal libro è stata tratta un'opera lirica nel 1966) consiglio la lettura a chi ha già letto altri due testi simili di Adelphi: "Omeros" di Derek Walcott (soprannominato "l'Omero dei Caraibi") e Una via nel mondo di Naipaul, entrambi Nobel per la letteratura; oppure a chi è affascinato dalle storie della nobiltà creola, a cui consiglio anche Ricardo y Carolina di Laura Costantini e Loredana Falcone e Racconti creoli di George Washington Cable.

Deborah D'Addetta