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Sulle tracce di Laurel e Hardy: il ritorno di un Philip Marlowe "triste, solitario y final" nel romanzo ibrido di Osvaldo Soriano

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Triste, solitario y final
di Osvaldo Soriano
Einaudi, 2015

Traduzione di Glauco Felici

pp. 176 
€ 11.00 (cartaceo)
 

Triste, solitario y final. Da anni attendevo di leggerlo, da anni temporeggiavo per timore di trovarmi di fronte alla dissacrazione dell’immaginario chandleriano, da cui il personaggio di Philip Marlowe è scaturito per assumere quasi vita propria (come rivelano, anche nel volume, le Assonanze conclusive, in cui il creatore parla della sua creatura, mettendone in luce l’autonomia, l’individualità). Sbagliavo perché, come hanno scritto critici ben più illustri, Osvaldo Soriano è riuscito, all’inizio degli anni ’70, a innestare un classico sul classico, a creare un gioco di riflessi che non solo non tradisce, ma anzi celebra l’ipotesto. Tutto si gioca sul tema del doppio: abbiamo innanzitutto due protagonisti, entrambi in una fase declinante della propria vita. Da un lato Philip Marlowe, ormai senza clienti e senza denaro, che beve troppo e passa le sue giornate a vagabondare senza scopo; dall’altro Stan Laurel, rimasto orfano di Oliver Hardy, uno di un duo che traeva dalla coppia la sua forza e la sua popolarità, “un uomo famoso che nessuno conosce” (p. 6), ormai prossimo alla morte. Sono due uomini soli, che cercano qualcosa l’uno dall’altro: Marlowe un po’ di compagnia e un nuovo scopo, o solo un compagno di bevute; Stan un detective che possa scoprire perché ormai da molti anni non arrivano più ingaggi e il mondo del cinema pare averlo dimenticato.
Anche la costruzione della trama si muove su due binari: quello del presente narrativo, detto al passato remoto, in cui Stan arriva nell’ufficio squallido di Marlowe e si avvia l’indagine; e quello del passato, narrato invece al presente, che rivela, attraverso una serie di quadri isolati, l’incontro tra Stan e Oliver, la nascita del sodalizio professionale, la loro crisi. Il testo è ricchissimo di rimandi interni, come la costruzione in parallelo dei due viaggi di Stan: quello verso gli Stati Uniti, carico di sogni e aspirazioni, primo fra tutti quello di non lasciarsi stritolare dal nuovo mondo del cinema americano, e quello di ritorno verso l’Inghilterra, carico della delusione di tutto ciò che è accaduto nel frattempo. Se nel primo caso il compagno di traversata, Charlie Chaplin, recava già negli occhi ardenti il segno del successo, nel secondo Ollie condivide la sua stessa malinconia. Solo in Europa può esserci riscatto, e solo parziale, per chi l’America non riconosce più.
Se il quadro non risultasse già abbastanza complesso, nella seconda parte del volume l’autore mette il carico da novanta: sette anni dopo il loro incontro, Marlowe si reca in visita, quasi in pellegrinaggio, alla tomba di Laurel. Lì incontra un uomo grassoccio, uno scrittore argentino che dice di chiamarsi Osvaldo Soriano e di essere arrivato a Los Angeles per scrivere un romanzo su Stan e Oliver. Tra i due scatta quasi immediata, se non una simpatia, certo una sorta di empatia. Intimidito dall’iperefficienza del Nord America, Soriano scopre in Marlowe una possibilità diversa di vivere ed essere. Quest’ultimo, del resto, porta avanti la sua battaglia, a suon di sarcasmo e parole taglienti, contro il grande mito ipocrita degli Stati Uniti d’America. Alla commedia di Laurel e Hardy si contrappone l’altra commedia, che non fa affatto ridere, allestita da un sistema capitalista che già mostra le sue crepe. Marlowe rappresenta il cinico disincantato, il ribelle che fa la fame, colui che non si presta al gioco:
“Non ha capito? Sono stanco di tutta questa commedia. Non voglio guadagnare denaro in questa cloaca. È inutile affannarsi. Non c’è nulla da difendere. Credo che non ci sia mai stato. Adesso tutti quanti hanno un morto in famiglia e chi non ce l’ha è solo come un cane. Questo paese è stato sommerso dalla merda già da molti anni, ma la gente diceva che l’odore che si sentiva era di margherite di campo.” (p. 37)
Soriano, dal canto suo, apprezza l’asciutta amarezza dell’altro, il suo andare oltre la superficie in cerca di una verità. Sono due investigatori che utilizzano metodi diversi: da un lato la forza bruta e le domande scomode, dall’altro le fonti documentarie, libri e giornali. L’indagine per recare giustizia a Stan Laurel, in fondo apprezzato da quel ruvido sentimentale che è Marlowe (“Era un grande senza bisogno di farselo ripetere da tutti. Era un bel vecchio, si metteva un vestito fuori moda e aveva una dignità che si vedeva da lontano”, p. 41), fa di loro una nuova coppia, a suo modo strampalata come quella di Stan e Ollie, Don Chisciotte e Sancho Panza di tempi in cui c’è poco spazio per gli idealismi. Coinvolti in gag e avventure grottesche che li fanno assomigliare ai comici di cui stanno inseguendo le ombre negli studi hollywoodiani, Marlowe e Soriano riscrivono gli stilemi del genere.
Le loro ricerche sono approssimative, quasi sempre vane, e si concludono a scazzottate e con un altissimo rischio di decesso, alternativamente per l’uno o per l’altro. Specie perché presto i due vengono assoltati per un incarico del tutto chandleriano, che implica una femme fatale dalla spiccata sensualità, un marito geloso, degli sgherri poco raccomandabili... Soriano si diverte moltissimo a muovere il se stesso personaggio come un burattino, a creare dialoghi dal ritmo serrato, politicamente scorrettissimi, a mescolare la commedia e la tragedia per rappresentare tutto ciò che pertiene all’umano. Lo stesso ritratto di Marlowe, che riesce a trovare dopo un periodo di profonda depressione uno slancio nell’incontro con l’altro, risulta al contempo verosimile e toccante, ridicolo e profondamente vero.
– Se non vi offendete vi dirò che sembrate una caricatura. […] Si può sapere cosa cercate?
– Laurel e Hardy. […]
– Che scherzo è questo? – domandò tra le risa.
– Non è uno scherzo. Lui vuole scrivere su Laurel e Hardy. È venuto a Los Angeles per fare ricerche sulla loro vita. Da quando abbiamo cominciato a lavorare insieme ci va sempre male.
– Come a loro, – osservò Crystal.
Marlowe la guardò e cominciò a ridere, sempre più forte. Dovette stringersi il ventre e piegarsi. Sentì che tutto il corpo gli doleva. (p. 103)
La cerimonia degli Oscar è il momento, concreto e simbolico, della resa dei conti. Sul palco si raduna tutto il bel mondo della Hollywood che fu, si incontrano le nuove e le vecchie generazioni, e Marlowe si può prendere una sonora rivincita con una scazzottata che pare la scena di una slapstick comedy, in cui le armi da lui solitamente utilizzate nei romanzi di Chandler vengono sostituite dai colpi “sparati”, e dai “proiettili” costituiti dai pugni che arrivano a segno. Dal momento però che il noir difficilmente accetta il lieto fine, ancora una volta le cose sfuggono di mano, e i due protagonisti sono costretti a fare i conti con la violenza e le contraddizioni del contesto in cui si trovano.
Sebbene l’opera abbia valore anche autonomamente, la vera cifra di senso si dispiegherà soprattutto per chi abbia già incontrato Philip Marlowe nel suo ambiente naturale e riesca a decifrare i molteplici riferimenti su cui si basa il gioco letterario e intertestuale dell’autore. È anche un testo probabilmente inadatto al presente, e alla sua nuova sensibilità. È un romanzo primariamente maschile: le donne non vi trovano spazio, se non in forma stereotipata, oppure strumentale. Non va giù leggero con le minoranze, né ha alcuna delicatezza espressiva nei confronti delle imperfezioni fisiche, dei protagonisti come dei comprimari. Parla la lingua ruvida, schietta dell’hard-boiled, venata dalle suggestioni melanconiche del noir. Rimane un’opera per nostalgici, per gli amanti della bella scrittura e di un tempo trascorso; per chi si chiede che fine fanno i grandi una volta superato l’apice del successo, o i miti letterari una volta invecchiati (e vuole forse una conferma del fatto che non invecchiano mai davvero). Jane Fonda, che viene fatta portavoce della verità, osserva che “Hollywood non esiste più. […] Rimangono solo un po’ di vecchi, un pugno di spacconi e qualche hippy. La farsa è finita” (p. 125). Quel che resta è invece la letteratura, che sopravvive grande e forte in opere come questa.
 
Carolina Pernigo