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Un vuoto con i tratti piacevoli di un futuro appagamento. Su "Il lungo addio" di Raymond Chandler

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Il lungo addio
di Raymond Chandler
Adelphi, 2022

Traduzione di Gianni Pannofino

pp. 437

€ 24,00 (cartaceo)
€ 16,99 (ebook)

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È da qualche tempo ormai che non mi reputo più un grande lettore di gialli, né tantomeno di noir, non perché il genere non sia adatto a me e nemmeno perché io lo reputi non degno, come alcune volte potrebbe sembrare. No, il problema che limita il numero di letture di questo genere è, quasi sempre, il protagonista stereotipato. O, per essere più precisi, il problema è la fruizione di un personaggio centrale costruito affinché si muova nella trama e funzioni, più o meno bene, soltanto all’interno di essa. Questo di per sé non è un fatto per forza negativo, alcuni potrebbero dire addirittura che è fondamentale e che è l’indice di un romanzo ben riuscito; tuttavia, per i miei interessi e per le mie aspettative di lettore, il più delle volte non basta. Quando per un motivo o per un altro chiudo per qualche giorno il libro X che sto leggendo (un libro che magari mi sta portando rapidamente verso la conclusione, attraverso svolte e ingarbugliamenti più o meno intuiti), mi aspetto sempre di sentire una mancanza, un vuoto lieve e facilmente colmabile con il ritorno alla lettura (è, dunque, un vuoto con i tratti piacevoli di un appagamento futuro certo). Con i noir, invece, tante volte questo non succede: la mia aspettativa viene inevitabilmente disillusa, il piacere dato dall’appagamento latita, proprio come quello dato dalla lettura. Così, quando accade ciò, mi sorprendo a pensare che è la mancanza di un vuoto delimitato il vero vuoto, e che l’apprendere questo tutte le volte risulta spiacevole. Accade spesso; e penso che un lettore bulimico sia in parte pronto a questa quotidiana disillusione possibile, anche se non è mai del tutto difeso. È come se ogni volta la delusione riuscisse a passare, magari sfruttando la fiducia del lettore e la sua distrazione (“tempo non mi parea di far riparo”, mi dico tutte le volte che succede). Eppure, raramente accade il contrario. Delle volte ti accorgi che chiudendo il libro e pensando ai fatti tuoi ti ritrovi a vedere accanto a te quel personaggio di cui hai letto qualche storia, qualche stralcio di vita, qualche battuta riuscita. In quei momenti ti rendi conto che il piacere della lettura è a tratti ineguagliabile. A me, questo, è successo proprio con il Philip Marlowe del Lungo addio, bell’hard-boiled di Raymond Chandler, uscito negli Stati Uniti nel 1953 e pubblicato in una nuova edizione italiana da #Adelphi lo scorso ottobre. 

Di Philip Marlowe si potrebbe parlare abbondantemente, si potrebbe scrivere in maniera approfondita sui romanzi a lui dedicati (Adelphi sta ristampando tutta la serie e questo di cui parlo è il terzo libro in ordine di uscita), perché è la forma su cui successivamente si sono basati i personaggi di altri noir, perché è protagonista che, pur nella sua stereotipizzazione, è concreto, vivo, in un certo senso è come una statua a tutto tondo che puoi osservare interamente girandoci attorno. Eppure, non credo che sia solamente il protagonista il motivo del piacere che ho provato nella lettura di questa storia, né, tantomeno, il suo inconfondibile punto di vista; penso che siano lo spessore e l’umanità dei personaggi tutti, la costruzione di un mondo che appare veritiero, vivo, caratterizzato da un recinto di topoi che non infastidisce, e che a mio avviso addirittura tranquillizza, normalizza un’esperienza gradevole.

La storia si muove su due filoni che si intrecciano e si slegano di continuo, ma la trama non è che lo sfondo, non è che la scena su cui si muovono i pensieri dell’autore, dei protagonisti e le vite di tutti gli altri personaggi, oltre a essere il filo rosso che collega i capitoli costruiti con sorprendente ibridazione, a tratti anche molto piacevole. Sono presenti capitoli da romanzo d’inchiesta (come l’8, in cui si descrive la vita nel carcere in termini che mi hanno ricordato Mondo recluso: vivere in carcere in Italia oggi e in cui si può leggere «In carcere un uomo perde la sua personalità. Non è che un piccolo problema di smaltimento, accompagnato da poche righe su un verbale», p. 63), capitoli ricchi di lirismo (come il 14, in cui l’apparizione di Ms. Wade sembra ricalcare stilemi poetici antichi, «I capelli erano di un biondo chiaro da principessa delle fate. […] Gli occhi erano di un azzurro fiordaliso, un colore raro, e le ciglia erano lunghe e quasi troppo chiare»), altri che mi hanno ricordato alcune pagine di Sotto il vulcano (mi riferisco al capitolo 28 in cui si legge un monologo dello scrittore Wade che mi ha ricordato le allucinazioni alcoliche del protagonista di Malcom Lowry, il console Geoffrey Firmin, «Potrei vomitare solo pensando a questo schifoso mestiere. Potrei vomitare comunque. Lo farò con ogni probabilità. Non abbiate fretta. Datemi tempo», p. 232, «Ho pregato e per questo mi sono disprezzato. Alcolizzato al terzo stadio che disprezza se stesso. Che diavolo preghi a fare, scemo? Se chi prega è un uomo retto, si chiama fede. Se a pregare è uno che soffre, significa solo che ha paura», p. 233). Inoltre, in alcune pagine si possono intravedere gli stralci dei demoni interiori dell’autore, come nei capitoli 23 e 24, in cui il problema dell’alcol appare sentito in tutta la sua complessità e pressante in tutta l’urgenza che può avere in chi sa ciò di cui sta parlando, oppure paragrafi che si potrebbero analizzare in maniera psicoanalitica. Il tutto, sempre, conservando un’unitarietà piacevole, spesso mantenuta (o accentuata?) dall’ironia, dalla battuta sagace del detective privato Marlowe. È il suo punto di vista che affascina e che funziona, è la sua descrizione delle situazioni e dei contesti che fa sì che la narrazione non diventi slegata ed eccessiva, è il dettaglio stilistico che rende il romanzo degno di nota.

Chandler ha consolidato un genere che poi si è rivelato molto fortunato, ha creato un personaggio, malinconico e un po’ blasé, che è rimasto vivo nonostante lo scorrere del tempo, nonostante i film e le storie simili che l’autore ha contribuito a creare. È forse il suo romanzo più sentito e più libero dalle catene del genere letterario questo Il lungo addio, forse il romanzo che nasce da un vero bisogno, da una necessità autoriale fondante. In più, qualche giorno fa, chiudendo il libro, ho sentito quel vuoto lieve e piacevole che non percepivo da molto tempo.

Giorgio Pozzessere