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«Mettere ordine nei ricordi, non sarebbe una bugia?»: la memoria, l'emarginazione, la storia famigliare. I Moosbrugger romanzo breve e ammaliante di Monika Helfer

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I Moosbrugger
di Monika Helfer
Keller, 2022

Traduzione di Scilla Forti 

pp. 210
€ 16,50 (cartaceo)


Per chi fa il mio mestiere – o almeno, per come lo faccio io – uno dei rischi più frequenti è quello di restare ingabbiati in una bolla. Spesso i nostri interlocutori, le persone con cui ci confrontiamo, quelle da cui impariamo, sono uno specchio dei nostri interessi e del nostro modo di guardare il mondo. E così le nostre letture, i nostri rapporti con gli uffici stampa, le storie che prediligiamo e le aree di competenza entro cui ci muoviamo. Per scongiurare il pericolo metto in atto da molto tempo alcune strategie, cercando quanto più possibile di ritagliarmi spazi di confronto oltre quei confini che per studio mi sono ritagliata negli anni – sono specializzata in letteratura anglo americana moderna e contemporanea – provando a uscire dalla mia comfort zone. E, come i lettori che si affidano ai librai per farsi consigliare, io talvolta mi affido agli uffici stampa, agli editor e ai colleghi che possano ampliare la portata del mio radar letterario, spingendomi verso zone che non considero spesso. È chiaro che non sempre il risultato è soddisfacente, ma vale la pena provarci. Anche il gruppo di lettura è per me un mezzo ideale per esplorare aree letterarie diverse, distanti dai miei interessi primari.
Sono approdata alla lettura de I Moosbrugger su consiglio di un ufficio stampa talentuosa, che non sempre mi segnala storie in linea con i miei interessi e competenze ma che proprio per questo talvolta mi sorprende e mi regala chicche cui probabilmente da sola non sarei arrivata. La stessa casa editrice che pubblica il romanzo, Keller, è una realtà in cui mi muovo ancora come una turista alla prima visita in una città straniera, incantata, un poco disorientata, avida di scoprirne quanto più possibile. La lettura di questo romanzo della scrittrice austriaca Monika Helfer, le cui opere hanno ricevuto numerosi premi in patria e che arriva ora per la prima volta in Italia nella traduzione di Scilla Forti, si è rivelata una piacevole sorpresa, ma anche la conferma di un dialogo che spesso intercorre tra le storie che leggiamo, una ricorrenza di tematiche e spunti e, se vogliamo, perfino di una certa tendenza narrativa.

Ma andiamo con ordine. I Moosbrugger è il romanzo-memoir della famiglia dell’autrice e, più precisamente, della bellissima nonna Maria, vissuta con la famiglia in una valle remota delle montagne austriache di inizio Novecento. È, quindi, la storia di una donna, di una famiglia poverissima, emarginata come più delle privazioni lo fa il sospetto, la diffidenza, in un minuscolo angolo di mondo. Lei, il marito Josef, i cinque figli: Gli Emarginati, come li chiamano in paese.
Vivevano lì perché i loro avi erano arrivati dopo, e il terreno costava meno, e il terreno costava meno perché era difficilissimo da lavorare. Maria e Josef vivevano lassù, nell’estremità più remota, insieme al resto della famiglia. Li chiamavano “Gli Emarginati”. (p. 17)
La colpa di Maria è la sua bellezza fuori dal comune. In una grande città probabilmente sarebbe stata la sua opportunità migliore, in un altro tempo una risorsa da sfruttare. Ma in quella valle remota è solo un intralcio, un pericolo. Le donne la guardano con sospetto, gli uomini, tutti, la desiderano e si interrogano sul senso di quel volto perfetto, sull’indole di chi ha una tale apparenza. Si interrogano, con malignità, perfino sul suo matrimonio, sulla devozione al marito, su quanto accade dentro casa. E come una maledizione quella bellezza l’accompagnerà sempre.
Nella valle più remota a una donna non conveniva essere bella. Ecco cosa intendeva. Laggiù nella valle si continuò a parlare della bellezza di mia nonna ben oltre la sua morte. (p. 56)
Quando scoppia la prima guerra mondiale anche Josef è chiamato alle armi e Maria resta sola in quella casa isolata, i figli da allevare con quel poco che riesce a mettere insieme. È, per qualche tempo, il favore del sindaco e del postino a permetterle di tirare a campare, ma il prezzo da pagare rischia di diventare troppo alto:
Al tempo stesso non riusciva a non pensare che doveva essere gentile con quell’uomo, dopotutto aveva parecchio da offrirle. (p. 44)
E la bellezza, diventa la sua rovina. Il desiderio che suscita negli uomini e le sue pulsioni stesse, l’abbandono, il sospetto, le costano l’emarginazione. Durante le licenze del marito Maria resta di nuovo incinta, ma il seme del sospetto ormai ha germogliato e quella figlia, Grete, la madre dell’autrice, non conoscerà mai l’affetto del padre ma solo i suoi silenzi. La colpa di Maria è la bellezza e l’essersi innamorata di uno straniero che ha bussato alla sua porta, non importa se nessuno sa davvero che cosa sia successo; o è stato forse il sindaco ad approfittarsi di lei, convincendola anche per mezzo della forza che era il giusto modo di dimostrargli riconoscenza?

La narrazione incede tra verità e segreti di cui quasi nessuno più è testimone diretto, il racconto si fa ammaliante e i piani temporali si intrecciano fra passato e presente, mentre il ritratto della famiglia si compone. Ognuno testimone della propria versione della storia, ognuno con il proprio ruolo. Helfer indaga il mistero della propria famiglia, ma ci rendiamo conto presto che tale mistero non è, in fondo, il segreto di Maria, quanto più di tutto la condizione di emarginati, i legami che intercorrono fra loro, l’eredità che arriva fino a lei.
Primo: quando e dove finiscono Gli Emarginati? Io sono ancora una di loro? E i miei figli? Mio marito è uno di loro? Secondo: che ne era stato dell’allegria e delle risate a casa degli Emarginati? (p. 128)
La storia privata si intreccia a quella più grande dell’Europa del Novecento, la prima guerra mondiale scava un solco nelle dinamiche famigliari. L’ultimo ritorno di Josef dal fronte segna un cambiamento profondo e dentro quei silenzi c’è l’orrore della guerra, l’impossibilità di dimenticare o perfino di raccontare. Zia Kathe a un certo punto aveva rivelato alla nipote che in guerra aveva perso il papà, le era tornato a casa un padre, a indicare quanto si è rotto dentro Josef, quanta distanza si era messa tra loro.

I Moosbrugger si ascrive anche, si accennava, a una modalità narrativa che negli ultimi anni appare molto interessante: la narrazione sospesa fra romanzo e memoir, l’indagine della memoria, i frammenti a costruire una storia che abbandona la linearità e l’affidabilità totale del narratore per metterci di fronte a tutte le mancanze, le inadeguatezze che sono dell’essere umano e del ricordo. Helfer lo fa consegnando al lettore un testo che non cede mai al sentimentalismo, né si crogiola nel ritratto della povertà e dell’emarginazione. È, invece, il mezzo attraverso cui si chiede conto del proprio passato e dell’eredità che comporta, si apre uno spiraglio sulla vita di qualcuno che abbiamo amato ma che il sentimento o il legame famigliare non bastano a spiegare e comprendere del tutto.
E, ancora, è lo strumento per indagare le proprie origini e dare vita a quello che fino a un attimo prima era solo un dipinto in un museo. E che adesso diventa la vita.
[…] ho visto i quadri dei contadini di Pieter Bruegel il Vecchio, ho pensato: “Sembrano la mia famiglia”, perlomeno stando ai racconti di mia madre e della zia Kathe. I bambini sono come gli adulti, solo più piccoli. Indossano gli stessi abiti, solo più piccoli. Hanno le stesse facce serie, solo più piccole. Le case sono talmente piccole che pare incredibile che la gente riesca a starci. Conosco tutte le loro storie. (p. 69)

Di Debora Lambruschini