in

Scrivere un libro per conoscere il proprio padre: "Il posto" di Annie Ernaux

- -

Il posto
di Annie Ernaux
L'Orma Editore, febbraio 2014

Traduzione di Lorenzo Flabbi

pp. 120
€13 (cartaceo)
€7,99 (ebook)



Annie Ernaux è sulla bocca di tutti, in questo periodo. Il Nobel per la letteratura, arrivato la scorsa settimana, ha fatto mandare in ristampa molti dei suoi libri, portati in Italia da L’Orma. Ernaux si è distinta nell’autofiction, un genere che vede l’autore raccontare episodi della propria vita mescolandoli con la creazione letteraria in modo da creare un prodotto che autobiografia non è, ma finzione neppure. Ernaux l’ha scelto perché voleva che la scrittura fosse un atto il più pubblico possibile, niente di privato o segreto, ma un’aperta esposizione della propria vita di donna e di scrittrice. Così facendo, libro dopo libro ha presentato al suo pubblico i vari segmenti della propria vita, in ordine sparso, recuperando di volta in volta quegli elementi del suo vissuto che si presentavano alla sua penna col bisogno di essere raccontati: c’è il periodo trascorso in una scuola cattolica privata (La vergogna), c’è l’estate trascorsa in una colonia (Memoria di ragazza), c’è l’esperienza traumatica dell’aborto giovanile (L’evento). 

Se si volesse recuperare il primo frammento di questa cronologia scomposta, sarebbe da cercare ne Il posto: il libro che Ernaux abbozza in seguito alla morte del padre, convinta di dover scrivere riguardo «alla sua vita, e a questa distanza che si è creata durante l’adolescenza tra lui e me. Una distanza di classe, particolare, che non ha nome» (p. 21). In questa dichiarazione d’intenti, che si trova nelle prime pagine del libro, c’è la caratteristica strutturale e tematica fondamentale del libro: la prospettiva fortemente sociologica con cui Ernaux sceglie di raccontare il padre, incastonandone con precisione la vita negli eventi storici della Francia tra gli inizi del Novecento e i tardi anni ’60. 
Il posto costituisce un genere a sé: non è romanzo – «da poco so che il romanzo è impossibile» (p. 21) – e non ha nulla di manualistico, perché anche gli scorci storico-sociali sono sempre filtrati dal vissuto del padre, estremamente quotidiano, rurale, e mosso dalla necessità: «quando leggo Proust o Mauriac, non credo che rievochino il tempo in cui mio padre era bambino. l’ambiente della sua infanzia è il Medioevo» (p. 25). 

Il desiderio alla base delle scelte familiari è quello della ricerca di una stabilità salariale e di una dignità lavorativa che permetta loro di non vivere più – e soprattutto di non comportarsi – da contadini. È questo motore ascensionale che li porterà prima al lavoro in fabbrica, poi all’apertura di un piccolo esercizio commerciale: 
Metà commerciante, metà operaio, appartenente a entrambi i fronti allo stesso tempo, destinato dunque alla solitudine e alla diffidenza. Non era sindacalizzato […]. Teneva per sé le sue idee. Quando si è nel commercio non ce n’è bisogno. (pp. 38-39) 
In quest’ottica di miglioramento sul piano della scala sociale rientra anche la volontà di sostenere gli studi della figlia, che abbandona la facoltà di Magistero e si iscrive a Lettere. Ma questa «vita bizzarra», che rimanda sempre più in là il momento del lavoro vero, che prevede di essere «pagata dallo Stato per girarsi i pollici» (p. 86), non può che cozzare con l’etica del lavoro e della fatica fisica che regola la vita del padre: «l’influenza, io, me la curo lavorando» (p. 53) è infatti uno dei suoi ritornelli preferiti. La distanza che si crea tra Annie e la sua famiglia cresce a dismisura, e comincia a comprendere anche la lingua: quel francese corretto che Annie vorrebbe sentire in famiglia, ma che le ritorna distorto dal dialetto del padre, sarà fonte di infelicità «e di dolorose litigate, ben più del denaro» (p. 60). Il denaro è tuttavia una costante del libro, e un’ossessione negli anni della difficile affermazione sociale della famiglia: denaro che quando non c’è provoca un senso di dolorosa vergogna, «il timore di essere fuori posto» (p. 54), di comportarsi da rozzo di fronte alle persone raffinate cui si vorrebbe somigliare. 

Ernaux alterna la narrazione memorialistica a brani metaletterari in cui riflette sull’atto della scrittura e nei quali, forse più che altrove, cerca una riconciliazione con la figura paterna: 
Scrivo lentamente. Sforzandomi di far emergere la trama significativa di una vita da un insieme di fatti e di scelte, ho l’impressione di perdere, strada facendo, lo specifico profilo della figura di mio padre. L’ossatura tende a prendere il posto di tutto il resto, l’idea a correre da sola. Se al contrario lascio scivolare le immagini del ricordo, lo rivedo com’era, la sua risata. (p. 41) 
Quando il ricordo tradisce – e lo fa spesso, soprattutto per i momenti in cui non si è prestata attenzione, distratti da altro – subentra la memoria inconscia, la conoscenza remota dei gesti e delle abitudini di un padre che l’autrice ritrova nei passanti, negli sconosciuti che incontra quotidianamente. Il posto racconta la storia di come Ernaux sia diventata colta e borghese, mentre suo padre no, mai del tutto: è un omaggio a un padre con il quale non riusciva più a comunicare, essendo fossilizzati entrambi sui codici dei diversi mondi cui appartenevano. «Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci» (p. 78), scrive la narratrice: o forse, scrive perché la letteratura è il mezzo migliore che conosce per fare i conti con suo padre.

Michela La Grotteria