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"La prima volta che il dolore mi salvò la vita": l'alba poetica di Jón Kalman Stefánsson

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La prima volta che il dolore mi salvò la vita
di Jón Kalman Stefánsson
Iperborea, 2021

Traduzione di Silvia Cosimini

pp. 287  
€ 17,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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La prima volta che il dolore mi salvò la vita si presenta al lettore innanzitutto con lo splendore delicato della copertina illustrata da Emiliano Ponzi, in cui il paesaggio innevato e il cielo gelido si aprono su una costellazione che si fa anche impronta digitale, marchio d’identità.
A differenza delle precedenti opere di Stefánsson tradotte ed edite da Iperborea, tutte romanzesche, questa riunisce le sue prime quattro raccolte, composte in un lasso di tempo che va dal 1988 al 1994, e che si configurano quindi come scritti giovanili, fondamentali per comprendere lo sviluppo successivo dell’uomo e dell’artista.
Nella prefazione alla silloge, con affabilità e non senza ironia l’autore stesso ci racconta dei trascorsi che l’hanno portato a essere quello che è: il progressivo avvicinamento alla poesia, inizialmente avvertita come estranea e poi strumento necessario per dar forma alla sua inquietudine esistenziale; il percorso di studi ondivago, e la ricerca personale che l’ha sempre accompagnato; il confronto mai esaurito con la tradizione poetica e letteraria islandese e con quella europea, che hanno fornito i punti di riferimento, i cardini intorno a cui far ruotare l’ispirazione.
Nel succedersi delle raccolte, di cui il volume riporta anche il testo in lingua originale, si può intravedere la strada che avvicina progressivamente Stefánsson a quel magma linguistico ed espressivo, denso e lirico al tempo stesso, che lo rende unico e riconoscibile in tutte le sue prove di scrittura.
Nella prima, “Con il porto d’armi per l’eternità”, la voce di Jón Kalman emerge già nitida, carica di tutto lo sdegno e il trasporto della giovinezza. Il suo è uno sguardo tanto amaro sullo scorrere sempre uguale delle giornate che neppure Lazzaro, richiamato alla luce, vuole risorgere a questo mondo. Nel conflitto inesausto tra le notti e i giorni, tra i sogni e le albe, sono sempre i primi ad averla vinta, perché ogni mattina “serra le sue mani azzurre intorno al collo / e detta le condizioni del vincitore” (p. 59). L’io poetico si risveglia in una realtà dominata da valori non condivisi, il cui senso più profondo non gli si disvela. Ciò peraltro non annulla la sete, la ricerca, e i testi sono quindi attraversati da quell’energia sotterranea che il lettore italiano ha imparato a riconoscere nei suoi romanzi. Non viene meno per Stefánsson un certo spirito di rivolta, di resistenza interiore: non è un arreso, anche se è difficile per lui trovare una via per la propria esistenza. A tenerlo ancorato è proprio un sentire vibrante che persiste al di là di tutto: a questo si deve anche il titolo, meraviglioso, della raccolta: la prima volta (di una serie di volte, sembra suggerirci) che il dolore mi salvò la vita.
Se la prosa di Stefánsson è intrisa di poesia, la sua poesia anticipa già la prosa nella concretezza di certe immagini, nel suo essere di fatto poesia d’occasione, spesso scaturita dalla realtà e alla realtà riferita. Anche quando si fa ricorso alle metafore, non manca mai un punto d’aggancio, un dettaglio materico, terrestre: da quando l’amore è stato crocifisso, l’autore gli ha eretto un tempo e non smette di cercarlo ma, aggiunge quasi in una postilla, “in verità vi faccio notare / l’esigenza di voli spaziali / se è vero / quanto sta scritto / che il terzo giorno / è risorto e / scappato verso i cieli” (p. 77).
D’altronde, per chi non vede più alcuna trascendenza e avverte forte la “fine del divino, il mondo è tutto ciò che rimane e qualunque cosa del mondo è degna di poesia, fosse anche un incidente d’auto, o un corvo che strappa gli occhi a una pecora viva. In una rabbia sottile, che vorrebbe bruciare un reale non all’altezza (la politica incurante delle cose di rilievo; un dio lontano e silente, oppure giudicante e accusatorio; l’uomo che a più riprese manifesta senza vergogna la propria inadeguatezza), solo l’amore e la natura portano con sé barbagli di speranza e di consolazione. Anche questi rischiano però di essere travolti dagli intralci del quotidiano, spesso causati da una scarsa lungimiranza dell’essere umano (così l’autore può condannare il buco nell’ozono, le armi atomiche, gli schermi televisivi che si fanno barriera tra l’individuo e la realtà).
Nella seconda raccolta i testi ora si ampliano, ora si contraggono. Si fa più forte la cifra narrativa, più forte l’impatto delle immagini. La lingua diventa amante sempre sospettata di tradimento, ma il poeta invaghito non può che esserle devoto, servo idolatrante. Il lessico si fa più espressionistico, carnale. Le ambientazioni più umbratili, mentre le vite dei personaggi si consumano nel baluginare di luci della città.
La ricerca del poeta è inesausta e compie un continuo movimento di andata e ritorno tra il fuori e il dentro, tra il mondo e la propria interiorità irrequieta. Nelle ultime due raccolte di testi vediamo il linguaggio condensarsi nel tentativo di trovare la parola densa e pesante, quella in grado di coagulare tutto il sentire di un attimo, di un desiderio, del sorriso di una donna che forse neppure esiste:
credimi
ho chiesto a tutte le lingue del mondo
e ai poeti di tutti i tempi
le parole
anche una sola
per quel sorriso
niente
[…]
quel sorriso
pretende un’unica poesia
la poesia che nasce urlando
⁃ deve nascere urlando -
di dolore
e poi, forse,
di gioia  (p. 231)
Il lavoro del poeta appare spesso ingrato: la lunga elaborazione, le giornate spese in un processo creativo che si esaurisce in pochi secondi di lettura del dedicatario. Eppure Stefánsson non rinuncia a farsi cantore dell’esistente, celebratore della vita con le sue ombre, con le sue atmosfere fumose e il suo sottofondo jazz, dove “il buio / è solo un gatto nero / che attraversa la strada / con un uccello in bocca” (p. 269).
A differenza delle prove narrative di Jón Kalman, che non si possono abbandonare per il flusso trascinante e avviluppante delle storie dei protagonisti, La prima volta che il dolore mi salvò la vita è un’opera da centellinare, da degustare un testo alla volta, lasciando a ciascuno il tempo e lo spazio per decantare come il vino buono. Oltre che agli amanti della poesia, i testi di Stefánsson piaceranno a chi già conosce l’opera di questo autore islandese, perché in ognuno è possibile sentire la sua voce, un’eco che precorre, invece che seguire, la stagione dei grandi romanzi e ne pone le fondamenta.
 
Carolina Pernigo