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L’apparenza inganna: la storia sconvolgente raccontata in "Compulsion" Di M. Levin

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Compulsion
di Meyer Levin
Adelphi, Milano 2019

Traduzione di Gianni Pannofino

pp. 580
€15 (cartaceo)
€8.99 (ebook)

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Chicago, 1924. Due giovanissimi ragazzi sono arrestati per l’omicidio di un quattordicenne. Basterebbe questo a innescare la paurosa curiosità per avvicinarsi a questo romanzo di M. Levin. Il surplus è che si tratta di una storia realmente accaduta.

Compulsion racconta la storia di Nathan Leopold (nel romanzo Judd Steiner) e Richard Loeb (Artie Straus): giovani di due famiglie benestanti e geni nei loro campi di studio che si macchiano di un atroce delitto al solo scopo apparente di testarne gli effetti che avrebbe prodotto l’omicidio su di essi. Dopo un anno di pianificazione, decidono di rapire e assassinare Robert Franks, anche lui appartenente a una famiglia benestante.

Nonostante la pianificazione del delitto, qualcosa va storto. Commettono errori grossolani, sebbene Loeb fosse anche un lettore compulsivo di romanzi polizieschi. Le indagini si rivolgono verso loro. In molti all’epoca sospettarono che i due volessero farsi scoprire, poiché era nota la spiccata intelligenza di entrambi e quindi destarono sospetto tutti gli errori commessi.

La vicenda della loro scoperta e del loro arresto fu uno dei primi casi mediatici americani. La curiosità fu suscitata poiché apparentemente non esisteva nessun movente: non fu un raptus di rabbia né un gesto istintivo né di vendetta personale. Nessuno dei motivi abituali sembrava andasse bene per questo caso.

Tale anomalia apre, ancora oggi, uno squarcio sulla psiche umana e sulle ombre più buie della mente: cosa spinge due giovani ragazzi con un brillante futuro davanti a sé a commettere un crimine contro natura, come l’omicidio? Stroncare una vita umana, quasi per noia o esperimento sociale?

Questo è quello che si domanda Meyer Levin, autore di questo romanzo, il quale conobbe all’università i due protagonisti, dei quali poi indagò la personalità e le possibili ragioni, dando alla luce quello che oggi è considerato il primo romanzo-verità della letteratura americana. Scritto nel 1956, creò anche in quel momento un profondo scalpore così come oggi.

La questione del movente è il filo conduttore della narrazione, dopo l’arresto dei due. Scansato ogni dubbio sulla loro consapevolezza, poiché entrambi confessarono subito l’omicidio, i difensori cercarono scappatoie per evitarli la pena capitale, in vigore nello stato dell’Illinois.

Levin ha il grandissimo merito di mostrarci i fatti così come sono successi, senza inserire opinioni personali o emettere giudizi. Nel suo alter ego di Sid prende per il mano il lettore e lo guida con grande delicatezza e con dovizia di dettagli nei meandri criminali di questa vicenda. Ancora oggi, è uno dei romanzi più sconvolgenti che io abbia letto, perché nonostante la vicenda sia accaduta nel 1924, molte sono le analogie con il tempo attuale a mio parere.

Basti pensare al clamore mediatico che tutt’ora accompagna vicende di cronache nera, i pregiudizi sociali e o il traviamento da certe idee o concetti sulla psiche. Quello che più mi ha colpito, infatti, è che l’unica spiegazione accennata dai due sia l’ispirazione alla teoria del Super Uomo di Nietzsche.

Quel momento era il culmine, il compimento della loro impresa, l'ultimo atto di tutto il loro piano. Si sentì finalmente libero dalla paura. Non sarebbe mai stato scoperto, perché lui era l'incarnazione della forza. (p. 162).

Un uomo superiore alla folla, al di sopra delle persone comuni, della società attuale e quindi al di sopra delle leggi convenute, così lo spiegarono i due assassini. Essi, travisando la filosofia di Nietzsche, si macchiano di quest’atrocità, cercando in parte di dimostrare la loro superiorità alle leggi e allo stato, evidentemente senza riuscirci. Nemmeno questo però era in realtà il vero movente; nessuno dei due seppe dare una spiegazione conclusiva per le loro azioni.

È un viaggio processuale e introspettivo che suscita ancora oggi interrogativi irrisolti e senza risposta, ma che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è posto. Una voragine nell’animo umano che Levin scava con maestria e bravura; la scrittura di Levin si muove liscia, senza inceppi, con un linguaggio semplice, ma non grossolano, e riesce a farci assistere al processo, a essere lì mentre cerca una spiegazione. La difficoltà per Levin sono doppie, infatti in quell’anno è ancora un giornalista alle prime armi e, quindi, non è facile affrontare questo caso per un principiante, e per l’oggettività che mantiene per tutta la narrazione, nonostante la sua conoscenza, seppur superficiale, con i due assassini. Non è quindi un romanzo che ti lascia indifferente, ma ti entra dentro o che tu lo odi o che tu lo ami.


Giada Marzocchi