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Un respiro tra i fantasmi andando alla cieca: "Breath Ghosts Blind", l'ultima mostra di Maurizio Cattelan negli spazi Pirelli HangarBicocca

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Maurizio Cattelan. Breath Ghosts Blind

a cura di Roberta Tenconi e Vincent Todolí
traduzioni di Johanna Bishop, Christopher Huw Evans, Costanza Ferrini, Valentina Freschi, Laura Guidetti, Francesca Malerba Editorial & Partners, Cristina Viti

Marsilio, 2021

pp. 216
€ 45,00 (cartaceo)

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Milano, Pirelli HangarBicocca. Due sculture in bianchissimo marmo di Carrara – quella di un cane accovacciato e di uomo rannicchiato in posa fetale – giacciono vicine l’una di fronte all’altra sul pavimento della Piazza: in comune sembrano avere solo il respiro (il primo o l’ultimo?), da emettere o da trattenere (Breath). Centinaia e centinaia di piccioni in tassidermia sono invece sparpagliati lungo tutto lo spazio delle Navate, disposti singolarmente o in gruppi, disseminati sul carroponte, appollaiati negli interstizi tra i pilasti e le pareti: innumerevoli fantasmi silenti da contemplare o da cui farsi contemplare (Ghosts). Infine, nell’area del Cubo, ecco un enorme monolite trafitto dalla sagoma di un aereo, un blocco di resina compatto in cui l’astrazione geometrica e il disegno del velivolo si fondono tra loro anche in virtù di un omogeneo bagno di nero: una cecità eterna o episodica in reazione a una visione tragica e insostenibile, a una luce improvvisa che fa ripiombare nell’oscurità del senso e della ragione (Blind). Inaugurata in piena estate e visitabile ancora per tutto l’autunno e l’inverno, Breath Ghosts Blind, la mostra di Maurizio Cattelan a cura  Roberta Tenconi e Vincent Todolí, segna il ritorno dell’artista veneto nel capoluogo lombardo a più di dieci anni dall’ultima esposizione a Palazzo Reale. Tre sole opere, stavolta, dislocate all’interno di uno spazio espositivo enorme, a scandire le tappe di un discorso (apparentemente) minimale su questioni e dualismi cruciali quali vita e morte, luce e buio, bene e male: un lavoro sul senso del dolore individuale e collettivo, tra eventualità della perdita e necessità della riconquista.

Il catalogo, pubblicato da Marsilio in edizione bilingue (inglese/italiano), rende giustizia a questo grande evento sia per la bellezza e la ricchezza delle immagini sia, soprattutto, per lo spirito composito e poliedrico che ne anima i numerosi testi; un’impostazione efficacemente sintetizzata in questo botta e risposta tratto proprio dalla lunga conversazione a tre voci tra l’artista e i due curatori che vi si può leggere all’interno (Faits divers / Faith divers / Fatti diversi), in cui Cattelan, rispondendo alle domande incrociate di Tenconi e Todolí, fa il punto sulla sua attività ormai trentennale:

«V.T.: Hai insistito per includere in questo catalogo voci e contributi di natura differente, provenienti non solo dal mondo dell’arte, ma anche dalla letteratura, la filosofia, la storia, la teologia e la sociologia, proprio a sottolineare la necessità di una lettura semantica del tuo lavoro. Tu stesso metti insieme nelle opere piani di significato diversi: sembra che sia davvero importante che la loro interpretazione, e il dibattito che ne consegue, siano il più sfaccettati e aperti possibile.

M.C.: Sono sempre stato contrario ai cataloghi ma, se li realizzi, allora devono raccontare qualcosa, altrimenti sono solo una raccolta di cartoline. Io penso di avere poco di interessante da dire, non è il mio lavoro parlare o scrivere sulle opere, quindi meglio chiedere ad altri e, visto che non credo nelle categorie, ancora meglio se le voci sono diverse: serve a tenere viva la discussione sull’arte, sul suo valore etico e sociale» (pp. 81-82).
Tutto si può dire, difatti, fuorché queste premesse non vengano rispettate, e lungo e prestigioso è l’elenco degli autori e delle autrici. Oltre alla succitata intervista e alle schede delle opere (a cura di Lucia Aspesi, Fiammetta Griccioli e Mariagiulia Leuzzi), figurano difatti le analisi di addetti ai lavori quali il critico e curatore Francesco Bonami (Arrendersi surplace), lo storico dell’arte specializzato in iconografia cristiana Timothy Verdon (Sfiducia salutare), il docente di Estetica all’Università degli Studi di Milano Andrea Pinotti (L’immagine? Una realtà mortalmente seria) e la curatrice e storica dell’arte indipendente Nancy Spector (Cieco verso cosa?). Mentre il primo (già autore, nel 2011, di Maurizio Cattelan. Autobiografia non autorizzata) definisce efficacemente la mostra come «una rappresentazione della rinuncia all’arte come balsamo curativo della paura» (p. 24), il secondo – che è anche sacerdote cattolico e canonico della cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze – ci vede la proposta di «uno spazio interiore dimenticato e trascurato, in cui lasciare emergere idee e attitudini ancora da collaudare» (p. 35), e mette invece in evidenza come l’artista sia riuscito a cogliere e rielaborare sia la crescente sfiducia maturata nel corso dell’annus horribilis 2020 sia la speranza per un futuro auspicabilmente migliore:
«Cattelan fa sperimentare il disagio come poesia, l’alienazione come comunità, e questo in qualche modo ci salva. Pur non fidandoci di nulla, avvertiamo la capacità di riformulare la sfiducia come arte» (p. 33).

E se Andrea Pinotti, da parte sua, esorta a congedare definitivamente le etichette riduttive con cui l’artista è stato spesso e volentieri ridimensionato – Cattelan il provocatore, il giullare, il buffone – e insiste sui presupposti di serietà del suo lavoro basandosi sulla «triangolazione strutturale e costitutiva» (p. 99) di “morte-immagine-realismo” che è alla base della sua poetica e della sua pratica, Nancy Spector, curatrice di All, importante retrospettiva al Guggenheim Museum del 2011, approfitta dell’occasione offertale da Blind e dal suo riferimento alla tragedia dell’11 settembre 2001 per indagare il rapporto dell’artista con gli Stati Uniti (ciò che lei definisce “il ciclo americano” di Cattelan), analizzarne la pulsione «a contemplare il male, ciò che depreda, e l’apparente impossibilità di contenerlo» (p. 146) e problematizzare la natura del monumento commemorativo e dell’arte monumentale: «quale effetto susciterà oggi l’anti-monumento al terrore di Cattelan», si chiede, «in un mondo stanco della violenza istituzionalizzata e diffidente nei confronti della sua rappresentazione?» (p. 151). Circa la mostra nel suo complesso, invece, Spector (che scrive il suo intervento nel novembre del 2020) offre un’interpretazione “circolare”:

«questa installazione in tre parti è un simbolo del ciclo della vita: la nascita è rappresentata come un momento generativo, quando l’umanità è tutt’uno con la natura, parte della terra piuttosto che dominante su di essa. I piccioni – allo stesso tempo calmi e potenzialmente frenetici – raffigurano l’intrinseca confusione della vita, piena di opportunità e insidie. Blind è un monito alla natura inevitabile ma imprevedibile della morte; viviamo in uno stato di non conoscenza, in una sorta di beata ignoranza su come e quando moriremo. Esistere altrimenti sarebbe psichicamente ed emotivamente insostenibile. Forse questa incapacità di fare previsioni rispetto alla nostra mortalità è il vero significato di ciò che Cattelan chiama “cecità” con il suo monolite del lutto. Nella migliore delle circostanze, che è tutto ciò che si può sperare, presumiamo che il giorno successivo sorgerà, che il ciclo vitale continuerà a spingerci in avanti, con la morte in attesa nel più lontano degli orizzonti. Essere umani richiede un certo tipo di cecità verso l’inesorabile. Alcune persone la chiamano fede» (p. 158).

Ma non basta. Oltre a Il giuramento – un racconto distopico e grottesco sull’applicazione radicale del veganesimo all’interno di un quartiere urbano, vero e proprio vaso di Pandora che il romanziere Arnon Grunberg scoperchia per agitare con non poco parossismo e paradosso i temi della divisione e della contrapposizione tra giusto/sbagliato, buoni/cattivi – il volume include altri tre estratti da studi e saggi di prestigio, i quali, pur essendo rispettivamente e singolarmente riferibili alle tre opere esposte in mostra, concorrono nel complesso a un’interpretazione ulteriormente sfaccettata di Breath Ghosts Blind, facendola viaggiare nel tempo e nello spazio e incrociandola con riflessioni, ricostruzioni e speculazioni anche al di fuori dell’ambito prettamente artistico. Così, ecco che Cani e mendicanti. Scrivere attraverso la traduzione, Al-Maarri e Omero, estratto dall’omonimo libro di Golan Haji (1977), fa contemplare in un orizzonte più letterario, classico e “mediterraneo” le due sculture protagoniste di Breath: nel suo lavoro, difatti, il poeta e traduttore curdo-siriano

«restituisce una lettura inedita della figura del mendicante e di quella del cane, accostando due personalità centrali nella letteratura antica. […] Rappresentative di due culture e usanze diverse, le due figure si inseriscono in maniera esemplare nel solco della tradizione dei cantori ciechi, le cui opere costituiscono metafore senza tempo del viaggio – immaginario o reale che sia – della vita» (p. 41).

Con occhi altrettanto nuovi – per così dire più pii e compassionevoli – si guardano anche i piccioni impagliati di Ghosts dopo l’interessante e illuminante ritorno al passato che si compie grazie a Festa della domenica delle palme, tratto da Origine delle feste veneziane (1817-1827), opera più nota di Giustina Renier Michiel (1755-1832). L’autrice, considerata “l’ultima dama veneziana” e a suo tempo animatrice di un salotto degno di nota frequentato da figure del calibro di Lord Byron, Antonio Canova, Ugo Foscolo e Madame de Staël, vi ricostruisce difatti l’origine della presenza dei piccioni in Piazza San Marco, ricordando come il loro ruolo fosse centrale nello svolgimento della celebrazione che precede il Triduo pasquale:

«già dalla fine del diciottesimo secolo i volatili erano visti dai veneziani come il simbolo di una comunità, coloni della Basilica di San Marco e fondatori di una “Repubblica” basata sulla libertà e sulla coesistenza pacifica» (p. 106).

Dulcis in fundo (o, data l’amarezza del tema, in cauda venenum), sono le parole di un’intellettuale come Susan Sontag (1933-2004) a offrire ulteriori spunti interpretativi per Blind: l’ottavo capitolo di Davanti al dolore degli altri (2003), celebre libro della saggista e scrittrice, viene riportato per intero, e con esso la sua riflessione sul ruolo della guerra e della violenza per tramite della loro rappresentazione visiva nella società e nella cultura:

«l’autrice indaga la funzione di immagini atroci come monito a non dimenticare eventi drammatici. Unico filo che ci lega ai morti, la memoria è considerata un atto etico. Nonostante i tentativi di distogliere lo sguardo, l’ubiquità e l’ipervisibilità di immagini tragiche ci portano a riflettere sull’atto stesso del guardare che sottende necessariamente una certa distanza» (p. 172).

Curato in ogni dettaglio, il catalogo di Breath Ghosts Blind non deluderà dunque le aspettative dei fruitori più esigenti. Se gli estimatori e gli studiosi dell’artista non se lo faranno comunque mancare per ovvie ragioni di apprezzamento e documentazione, è però da credere che la portata dei temi e il loro svisceramento lo rendano desiderabile in quanto perfettamente trasversale sia rispetto alle linee critiche della nostra contemporaneità sia nei confronti di questioni che da sempre rappresentano un banco di prova per l’intelligenza e l’emotività umana. Tuttavia, proprio come accade nella mostra, anche il volume e le sue firme si pongono fortunatamente nei confronti del fruitore più come stimolatori di domande che come fornitori di risposte: l’interrogazione e l’inconcludenza, con tutto il disagio che ne consegue, saranno dunque da accogliere come conseguenza positiva di una chiamata alla riflessione a cui sarà bene non sottrarsi, anche – perché no? – per scoprirsi in disaccordo con l’artista, con i suoi commentatori, con entrambi. È lo spirito della mostra, perché è proprio così che lo spirito cattelanesco si esprime al suo meglio: «quando una cosa viene soddisfacentemente resa comprensibile la si può musealizzare, catalogare, seppellire; quando invece siamo obbligati a raschiare il fondo delle conoscenze per capirla, ci tiene desti» (p. 34).


Cecilia Mariani