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Un memoir scritto per recuperare i diritti d'autore su se stessa: "I fantasmi di una vita" di Hilary Mantel

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I fantasmi di una vita
di Hilary Mantel
Fazi, settembre 2021

pp. 230
€ 18,00 (cartaceo) 
€ 9,99 (ebook)


La verità non è graziosa, pensavo, e non rende graziose le persone impegnate nella sua ricerca. La verità non è elegante; crederlo è un sentimentalismo degno di un matematico. La verità è squallida e piena di chiazze, e la trovi solo accumulando macerie coperte di polvere dei fatti, nelle cantine e nelle fogne della mente umana. La storia è quello che gli altri cercano di tenerti nascosto, non quello che vogliono mostrarti. Bisogna rovistarci dentro esattamente come quando si passa al setaccio un terrapieno: per scoprire cosa la gente ci ha voluto seppellire. (p. 145)

Ci sono tante case e tanti fantasmi in questo libro di Hilary Mantel.
Le case sono quelle che la scrittrice ha vissuto, come il 56 di Bankbottom ad Hadfield, l'Owl Cottage di Reepham o il 20 di Brosscroft, ricavato da un ex manicomio. Alcune hanno angoli bui e scale che scricchiolano, altre tavole apparecchiate, altre ancora fiori scarlatti alle finestre. Tutte, in qualche modo, ospitano fantasmi che le abitano come abitano i sogni, i ricordi e le preghiere. Sono I fantasmi di una vita che danno il titolo al memoir dell'acclamata autrice, unica britannica ad aver vinto per due volte il Booker Prize (nel 2009 con Wolf Hall e nel 2012 con Anna Bolena. Una questione di famiglia).
Mantel porta il lettore al cuore della ragione cruciale di questo libro: la riappropriazione di se stessa. Dichiara di aver scritto la sua storia perché per troppo tempo questa è stata scritta da altri, i genitori, la se stessa bambina, i bambini a cui non ha potuto dare vita e che continuano a tornare - sua feroce immagine - per rubarle la penna.
Il libro è percorso da un'urgenza di nuovo possesso e di scoperta, perché nel passato di ognuno c'è sempre qualcosa che altri hanno voluto nasconderci, una versione della storia alternativa rispetto a quella che ci hanno raccontato. E spesso non sono i vivi a svelarcela, sono i fantasmi. 

Conosciamo Hilary bambina in un mondo che sembra ricoperto di un color cremisi spento che oggi non si trova più. Nell'Inghilterra rurale del dopoguerra lo si vedeva "sui pannelli delle porte di casa, sui cancelli delle fabbriche e su quei portoni alti che si aprivano su certi vicoli stretti fra due botteghe e che davano accesso ai cortili". Siamo proprio tra i cortili della sua memoria che è un santuario vasto e infinito, come diceva Sant'Agostino, e che qui germoglia come semi dentro un terreno fertile nel racconto di una donna che sembra quasi dire "io" per la prima volta.
Hilary impara presto a fabbricare storie; immagina di essere stata un pellerossa per il gusto di coltivare il sentimento della nostalgia, così importante per gli scrittori, così essenziale per gli esseri umani. Altre volte si chiede come mai non è nata maschio e se mai potrà esserlo, altre ancora scrive sulla sua amata lavagna magica storie che si diverte poi a fare sparire all'istante. Sensazione che porterà con sé anche da grande, terrorizzata al pensiero che qualcuno possa violare lo spazio intimo della sua scrittura arrivandole alle spalle o quando non è pronta. 
La vediamo crescere tra la sparizione del padre e la morte del patrigno Jack, prime due perdite di una vita che ne è scandita. C'è una profonda riflessione in questo libro sulle persone che si perdono e anche su quelle che si perdonano, che spesso finiscono per coincidere. Mantel ci ricorda che quando si diventa grandi in fondo non si dovrebbero giudicare poi tanto i genitori. Hanno quasi certamente commesso degli errori ma il tempo insegna a ognuno di noi com'è fare errori. E poi c'è la malattia che sopraggiunge e le sconvolge l'esistenza tra diagnosi errate, depressione, trattamenti psichiatrici devastanti.
Il suo male le fa vivere anni di "sonni inquieti abitati da sogni autunnali, come la terra fradicia e scura nel cuore di un bosco ceduo". È in questa tempesta che diventa donna e scrittrice, mai madre. 

Fiaccata nel corpo, reagisce con l'immaginazione che ha dato vita ai suoi libri che sono spesso, in tanti modi diversi, storie di fantasmi che tornano a trovarla. 
Come si fa a creare il racconto della propria vita?, si chiede l'autrice. Questa è la domanda di senso che percorre tutto il memoir, genere sfidante e pieno di insidie per coloro che sono abituati a fare vivere le vicende di altri. Come si fa a cercare tra i vecchi stracci per confezionare un nuovo vestito? 
Sono stata talmente massacrata dalle procedure mediche, talmente sabotata e manipolata, sono stata così magra e così grassa, che certe volte ho la sensazione di dovermi materializzare per iscritto ogni mattina - anche quando scrivere si riduce a una serie di insulsi scarabocchi che nessuno leggerà mai, al mio diario privato che nessuno potrà vedere finché non sarò morta. (p. 207)

La scrittura come materializzazione dell'esserci.
È per questo che i libri di memorie dei grandi scrittori ci affascinano: perché ci ricordano quanto scrittura e vita per certi esseri umani siano davvero parti di una stessa tensione esistenziale, nelle gioie come nelle sofferenze. Mantel qui si mette allo specchio ed è insieme la bambina di Hadfield e la vincitrice del Booker Prize. Alle sue spalle compaiono i fantasmi e i folletti domestici di una vita, ma non fanno paura, sono amichevoli e sono commoventi. Li prende per mano e li porta con sé alla tastiera perché in loro compagnia scriverà ancora.

Claudia Consoli