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Tradurre non è tradire, ma è rendere accessibile il significato: "I funamboli della parola" di Anna Aslanyan

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Anna Aslanyan traduzioni
I funamboli della parola
Le traduzioni che hanno cambiato la storia
di Anna Aslanyan
Bollati Boringhieri, giugno 2021
 
Traduzione di Enrico Griseri
 
pp. 288
€ 23,00 (cartaceo) 
€ 13,99 (ebook)

 


 

La traduzione può essere creativa quanto si vuole, ma è pur sempre un'attività derivata, che presuppone l'esistenza di un originale (p. 13)
In qualunque tipo di attività di comunicazione, sia essa artistica, politica, giudiziaria o di semplice scambio di informazioni, tra due interlocutori parlanti lingue diverse si genera un triangolo che ha come terzo vertice la figura dell'interprete.
Spesso si tende a dimenticare questa figura fondamentale che rende possibile la fruizione di prodotti che altrimenti resterebbero astrusi e non si considera l'importanza – nel bene e nel male – che ha avuto nel corso dei secoli e l'influenza che ha avuto nell'alterare il percorso della storia. Anna Aslanyan, interprete e traduttrice lei stessa, in questo saggio si ripropone di mostrare alcune figure che con la traduzione si sono sporcati le mani e hanno fatto parte di alcuni degli eventi fondamentali per la storia umana. Senza scendere mai nel tecnicismo o nello specifico delle teorie della traduzione, fa una panoramica del passato, delle sue esperienze personali, della difficoltà del mercato del lavoro della traduzione e del suo possibile futuro. Per un traduttore ciò che importa davvero sono le parole, non il senso: con buona pace di chi sosteneva che tradurre fosse sempre tradire.

Se oggi siamo forse più abituati a pensare che l'interprete sia un intermediario che cerca di restare il più possibile neutrale nella resa della traduzione, nel corso della storia la figura del traduttore ha ricoperto i ruoli più disparati: sono stati spie, diplomatici, politici. L'esempio migliore viene dalla figura dei dragomanni, i traduttori nel Vicino Oriente dove le lingue predominanti erano l'ottomano e l'arabo e ciò causava notevoli disagi nella comunicazione con il mondo occidentale. I dragomanni, figure poi decadute ufficialmente nel 1924, lungi dal fare i meri interpreti, adattavano e cambiavano i messaggi per stipulare accordi e non incorrere nell'ira dei destinatari, smerciavano segreti, si rivestivano del ruolo di diplomatici e politici. A volte a ragione, a volte a torto, si ritenevano inseriti nella società di adozione e l'autrice ci mostra una carrellata di alcuni di loro. Conosciamo così Alessandro Maurocordato che dal 1673 ricoprì il ruolo di gran dragomanno della Sublime Porta. Fu fondamentale nella negoziazione della pace di Carlowitz e sfruttò fino in fondo la propria posizione in quanto confidente dei potenti. Fu fondatore di una dinastia di dragomanni, europei cristiani che, pur vivendo in contesti musulmani, potevano mantenere una serie di privilegi ed esenzioni che ai semplici cittadini non erano concesse. E dire che lui aveva scritto una tesi di laurea sulla circolazione del sangue. Erano figure che non avevano per forza una specifica formazione nel campo delle lingue, ma erano piuttosto uomini di vasta e profonda cultura.
Anche se hanno ormai perso questa connotazione di indipendenza politica e decisionale, i traduttori nel corso dei secoli si sono trovati sempre a contatto con gli eventi nodali della storia e con le figure di potere. In alcuni casi il loro silenzio o la loro modifica a una frase hanno determinato la direzione di movimenti culturali o della storia.
Per esempio, nel 1877, l'astronomo italiano Giovanni Virginio Schiapparelli osservò con attenzione Marte identificando le linee scure che univano le "terre" e i "mari" del pianeta: decise di chiamarli "canali". In inglese la parola venne resa con "canals" che indica un'origine artificiale. Schiapparelli, che usava in modo intercambiabile "fiumi" e "canali" tanto da definire a volte anche il Nilo un "canale", non aveva dato questa sfumatura, ma questa incomprensione generò e fu d'alimento per la teoria della vita intelligente su Marte creando una vera e propria moda.
Dal punto di vista storico viene ricordato un silenzio di traduzione che cambiò il corso della seconda guerra mondiale. In un incontro tra Franco e Hitler, il dittatore spagnolo, al momento del commiato, disse questa frase.
«Se mai verrà il giorno in cui la Germania avrà davvero bisogno di me mi avrete incondizionatamente al vostro fianco, senza che vi sia richiesto alcunché in cambio.» (p. 120)
Gross, l'interprete tedesco, o non capì o scelse di ignorare questa frase, forse ritenendola solo una formula stereotipata e determinando in parte la relativa neutralità che la Spagna mantenne durante il conflitto.
Interessante sarebbe a questo punto ragionare sulle posizioni che un traduttore può prendere. Schierarsi o restare neutrale? Affezionarsi al cliente o restare uno strumento? L'autrice, ricordando le sue esperienze come traduttrice giudiziaria, segnalava sempre ai suoi clienti di non pensare a lei come un avvocato o qualcuno dalla loro parte solo perché parlante la stessa lingua. Nel corso della traduzione, in caso di sua interpolazione personale, si riferiva a se stessa come "l'interprete" per evitare confusioni (per esempio: "l'interprete desidera fare una precisazione" in modo da non essere confusa con il reale interlocutore) equiparandosi a, di fatto, uno strumento. Non sempre è stato così nel corso della storia dove leggiamo di Richard Sonnenfeldt che fu tra gli interpreti del processo di Norimberga che tendeva a travalicare dal suo compito godendo nel cogliere in fallo Göring. Difficile, certo, mantenere la neutralità in episodi di questo tipo.
Alternando parti più leggere come gli slogan pubblicitari che possono essere recepiti in maniera diversa, ad angoli di storia poco conosciuta – anche se è un peccato che non ci sia una parte dedicata alla storia antica che sicuramente annovera interpreti degni di essere ricordati – a parti di letteratura come le traduzioni dei titoli dei romanzi, a volte molto diverse, o il caso della stretta simbiosi tra Borges e il suo traduttore americano Norman Thomas di Giovanni, questo saggio illumina figure che siamo tentati di dare per scontati e qualifica e definisce il lavoro di interpretariato come un "lavoro" a tutti gli effetti, regolato da un mercato che sta generando una legge di domanda e offerta malsana viste le paghe sempre più basse e i tentativi, ad oggi ancora non eccellenti, di sostituire le persone con sofisticati algoritmi e macchine.

I funamboli della parola, agile e scorrevole, ci mette di fronte a un'ennesima sfaccettatura della storia e ci ricorda, e ne prendiamo atto con vergogna, che se possiamo leggere libri stranieri lo dobbiamo solo alla figura del traduttore che troppo spesso dimentichiamo di guardare o di ringraziare.

Giulia Pretta