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"Le conseguenze" di Caoilinn Hughes: la fusione a freddo di amore e perdita, in un'Irlanda feroce e ineluttabile

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Le conseguenze
di Caoilinn Hughes
Pessime idee, 20 maggio 2021

Traduzione di Anna Mioni, revisione di Federica Aceto

pp. 250 
€ 18 (cartaceo)




La famiglia Black, composta da un contadino, una ex-suora molto religiosa, e due figli sempre in conflitto, abita la campagna di Roscommon, cuore dell’Irlanda rurale, come fosse una barchetta di carta nel mare in tempesta della crisi del 2008. Se l’inizio del romanzo fa infatti spesso riferimento alle conseguenze particolarmente devastanti che la crisi ebbe sull’Irlanda, dove arrestò bruscamente un periodo di enorme crescita economica, non lo fa tanto per delineare la parabola tragica del personaggio del padre, Manus Black detto "il Capo", da agricoltore a malato terminale pieno di debiti, quanto piuttosto per farci entrare in un mondo ontologico in cui il valore di ogni cosa è direttamente proporzionale alla sua precarietà. In un contesto in cui l’unica consolazione dell’orgoglio ferito del padre ormai sul lastrico è l’affetto familiare, dunque, ecco che anche nella famiglia si fa strada la perdita, sotto forma del desiderio del padre di morire che egli fa intuire ai propri figli. E di essere aiutato a farlo.

In questo senso, dunque, la prima sezione del romanzo si configura come un inizio descrittivo, che ci cala nel mondo edipico di Hart, narratore della storia. Se il fratello maggiore Cormac, laureato a Galway e imprenditore a Dublino, è il favorito della madre, Hart è piuttosto il favorito del padre, a cui ha dedicato tutta la sua vita: rimasto a casa dopo il liceo per assistere il padre prima con il lavoro nei campi e poi con la sua malattia, a soli venticinque anni si trova a vedere ormai in lontananza la fine della vita come l’ha sempre conosciuta. L’ombra della perdita gettata da queste pagine imposta il tono di tutto il romanzo, allineando il retaggio contadino dei tempi passati, una filosofia plasmata dalla volubilità della resa dei campi e del tempo atmosferico, a un mondo postindustriale altrettanto difficile da interpretare e anticipare. Questo spiazzamento è la condizione esistenziale del protagonista Hart, che, privo dei codici per interpretare il mondo al di fuori del suo villaggio, preferisce non confrontarcisi, non affrontare quella perdita di equilibrio necessaria al ritrovamento di una condizione nuova, interiorizzando piuttosto la perdita di senso che coinciderà con la perdita del padre.

Il senso ombroso di perdita che soggiace a questa struttura tragica si trasforma però improvvisamente in realtà quando, con una scena che non a caso coinvolge un prete e un confessionale, la morte entra come presenza concreta nel romanzo. Una concretezza che né la religione né il sistema legale sanno rendere nella carnalità con cui la vede Hart. Da qui in poi, la storia accelera, e se da una parte emerge l’intento di critica sociale dell’autrice (che nei ringraziamenti include anche Marie Fleming, attivista irlandese per il diritto alla morte scomparsa nel 2013), rimane la concentrazione sulla vicenda privata, su come tutte le azioni dei personaggi seguano quel binario fatalista delineato sin dall’inizio, in cui un padre morente risponde al «Mi mancherai tantissimo» del figlio con le parole «E tu mancherai a me terribilmente, ma così è la vita» (p. 117). Vita e morte, amore e perdita non sono più mutualmente esclusivi, ma si immergono l’uno nell’altro, si sporcano a vicenda, come vernici di colori diversi mescolate fino al punto da rendere impossibile capire i colori che erano prima.

In questo, la voce di Caoilinn Hughes si distingue come dotata di quell’approccio al fatalismo crudo, tipicamente irlandese, che si ritrova anche nelle descrizioni dei decadimenti economici dei protagonisti di L'ultima nave per Tangeri di Kevin Barry; ma con l’aggiunta di un lirismo che risente fortemente delle esperienze poetiche di Hughes prima del suo esordio in narrativa. Se il linguaggio non scende a compromessi, rispecchiando ciò che Hart proclama nella prima pagina del romanzo, cioè che «a volte bisogna legare un filo attorno al dente e sbattere la porta» (p. 5), il tono del romanzo si distingue davvero per ciò che Hughes sa stratificare a questa crudezza: un tono amaramente ironico all'inizio, che ben giustifica il titolo originale The wild laughter ("la risata selvaggia"), che piano piano però scompare per essere sostituito da descrizioni struggenti estremamente concentrate in poche righe. E, soprattutto, l’azzeccatissima scelta di affidare la narrazione alla voce estremamente inaffidabile di Hart. Se tutti nel romanzo si sono costruiti codici personali per interpretare il mondo, dalla religione alla menzogna patologica, Hart è l’unico che, con il progredire del romanzo, si scopre abitare un mondo di cui non possiede la chiave interpretativa, un mondo che continuamente gli sfugge. E la traduzione di Anna Mioni, con il supporto di Federica Aceto, rispecchia perfettamente questa volontà di straniare il lettore, che assieme a Hart viene messo di fronte a un mondo senza il filtro del senso che ciascuno di noi gli dà, in cui l’azione umana non sembra essere in grado di fermare il fato. Solo nelle ultime, struggenti pagine del romanzo sia Hart che il lettore comprenderanno i meccanismi ineluttabili di un mondo ingiusto che nessun romanzo può aggiustare, né cambiare, né santificare. 

Nostro padre non era un Dio. Non era in grado di tenere i suoi campi tra le mani e riempirli di messi. Non era in grado di tenere i suoi figli tra le mani e fare di loro degli eroi.
Ci misi anni per capire che questo non contribuiva a rimpicciolire le sue mani. (p. 244)

E se Hart, per quanto possibile, imparerà ad accettare i limiti dell'azione umana, chissà se il lettore, girando l'ultima pagina, troverà il coraggio di provare, almeno un po', a spingere quei limiti. Iniziando dal riconoscimento del diritto non solo di condurre una vita dignitosa, ma anche di morire una morte che lo sia altrettanto.

Marta Olivi