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Il romanzo che non si lascia mettere in pausa: "L'altro nome. Settologia I-II" di Jon Fosse

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l'altro nome jon fosse


L'altro nome. Settologia (Vol. 1-2)
di Jon Fosse
La Nave di Teseo, gennaio 2021

pp. 368

€ 22,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Che si sappia fin da subito: non vi è un solo punto di tregua, non un solo intervallo di riflessione. L’altro nome. Settologia I-II di Jon Fosse non si lascia mettere in pausa. Si può solo tornare indietro e ricominciare, senza mai fermarsi.

Opera-fiume, è così che è stato battezzato il romanzo di uno degli scrittori norvegesi più influenti del nostro secolo, considerato dal Daily Telegraph tra i cento geni viventi, oltre a essere ogni anno in lista tra i favoriti per il Nobel.

Aveva solo 12 anni, Jon Fosse, quando incominciò a scrivere brevi poesie e racconti. «Ho creato il mio spazio nel mondo, un luogo in cui mi sentivo al sicuro», confessa l’autore al Guardian in un’intervista del 2014. Per due lunghi decenni – dal 1994 al 2014 – Jon Fosse si è dimostrato un drammaturgo inedito e sorprendentemente prolifico, creando più di 40 opere teatrali, esploratrici di nuove immagini e nuove forme di espressione, dove corpo, tecnologia e assurdità della vita confluiscono per rimanere per sempre uniti ma chiaramente distinti. Fosse è stato paragonato a Ibsen, poi a Beckett, contro cui lo stesso drammaturgo ammette di essersi dovuto ribellare, per timore che i suoi lavori potessero assomigliare troppo al teatro dell’assurdo e al Godot che ancora tutti aspettiamo (per approfondire si veda l’intervista di Alessia Rastelli per il Corriere della Sera, La Lettura).

Tuttavia, «l’idea di scrivere un’altra pièce teatrale non mi soddisfa più», dice ancora al Guardian. Jon Fosse, dopo vent'anni di instancabile drammaturgia, ha scelto di ritornare alla narrativa, e nel 2015 ha iniziato a liberarsi di se stesso e dei suoi demoni, scrivendo 1200 pagine che scorrono irrefrenabili, e che dispiegano un flusso di coscienza senza intervalli visivi e spirituali. Un fluire raccolto in sette volumi, da qui Settologia, di cui La Nave di Teseo ha pubblicato i primi due volumi (un unico libro) tradotti da Margherita Podestà Heir.

In L’altro nome non vi sono confini e non vi è un tempo definito, ma vi sono le fredde lande di una Norvegia innevata, dove i vivi e i morti – immagine evocativa di uno dei finali più toccanti della letteratura europea tratta da The Dead (I morti) di James Joyce – vengono ricoperti da spessi fiocchi di neve che cadono silenziosi, riconciliando la vita e la morte, «perché non c’è nessuna grande differenza, sì distanza, tra la vita e la morte, tra i vivi e i morti, per quanto il distacco possa sembrare insormontabile di fatto non lo è» (p. 63).

Asle è l’altro nome di Ales, di Alise, Åsleik e ancora di Asle. Tutti sono uno: l’io narrante confluisce con naturalezza nella terza persona che a sua volta si riversa nella prima, pervasa, materialmente e spiritualmente, da un manto bianco che accompagna il protagonista lungo la strada del suo viaggio interiore, che prende le sembianze di un pellegrinaggio in macchina, poiché guidare è la sua passione. Sì, perché le parole instancabili e libere di Jon Fosse hanno la potenza di qualcosa di profondamente sacro e misterioso, come può essere la fede. Non ha importanza la religione o la conversione a essa. Basta guardare il mare freddo del nord per capire che «il mare ha in sé Dio, dice e un terzo dice che il mare è il più grande cimitero al mondo, e forse anche il migliore, commenta uno, sì c’è più Dio nel mare che sulla terraferma» (p. 155). Lo stesso mare in cui Asle, il pittore prigioniero del demone dell'alcool, vorrebbe farla finita, e lo stesso mare su cui Asle, il pittore che ha sconfitto per sempre la sua dipendenza, prega una preghiera silenziosa, «una preghiera che assomiglia di più a una rapida occhiata rivolta verso il mare che c’è dentro di loro, senza parole» (p. 153).

L’altro nome è la fluidità che rimesta la determinatezza dei limiti, proprio come quelle due linee, una viola e una marrone, dell’ultimo quadro di Asle, «dipinte lentamente con uno spesso strato di pittura a olio, che è colata, e nel punto in cui la linea marrone incontra quella viola si intersecano il colore si è amalgamato magistralmente prima di sbavare e penso che questo non è un quadro, eppure è proprio così che deve essere, è finito» (p. 13). 
L’altro nome è il luogo in cui la luce illumina la bellezza palpabile delle cose e quella impalpabile e oscura dell’anima, dove l’ombra è la luce invisibile, eppure più luminosa; «Ma qualcuno la vedeva?» (p. 79). «È così con tutti i miei quadri? Cosa voglio dire? […] forse è perché assomiglia alla mia immagine interiore, a quella che ho dentro di me, perché è quella l’immagine che cerco sempre di dipingere e se voglio che ci sia la luce nel quadro, che emerga dal dipinto, devo fare così, devo penetrare dentro me stesso, il più profondamente possibile, per poi uscire ed entrare nel dipinto» (pp. 106-107).
L'altro nome è il fardello delle immagini accumulate nella mente; è il tormento della memoria; è il dolore che per via della paura ha preso il sopravvento trasformandosi in un microscopico nulla, «che comunque esiste, saldo, incrollabile, persino più nitido nel suo muoversi senza movimento» (p. 37).

Ritorna il buio che cade come neve, ma nonostante le tenebre, «mi vedo» (p. 13).

Olga Brandonisio