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Nella nuova terra ci saranno i cavalli?... Lojze Kovačič è "Il bambino in esilio"

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Il bambino in esilio
di Lojze Kovačič
La nave di Teseo, novembre 2020

Traduzione di Martina Clerici

pp. 374
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Ognuno di noi ha presente quella sensazione strana che si prova quando si legge un romanzo, magari non conosciutissimo, un libro che non si vede troppo spesso occhieggiare dalle foto di Instagram o dalle recensioni dei giornali, men che meno da quelle dei blog. Un libro di cui pochi parlano. Ma che si percepisce immediatamente, se non proprio come un capolavoro, di certo come una pietra miliare. Della propria formazione di lettore e della letteratura che quello scrittore rappresenta. Ecco, a me è capitato con Il bambino in esilio di Lojze Kovačič, uscito un paio di mesi fa per La nave di Teseo.
Narra della storia di un bambino di dieci anni, chiamato in famiglia Bubi, che, di punto in bianco, senza quasi  poter preparare i bagagli, è costretto a lasciare la città in cui vive, Basilea. Siamo nel 1938, in un'Europa già sconvolta dal Nazismo, e le famiglie "non pure" sono costrette a tornare là da dove provengono. Il padre di Bubi proviene dalla Jugoslavia, la madre è di lingua tedesca, ma non basta. 

Due in divisa stavano scortando noi e i nostri bagagli essenziali alla stazione centrale attraverso Luisenplatz, tra gli sguardi curiosi della gente che si fermava a guardare. Poi attraversammo il ponticello sul fiumiciattolo  proprio dove, non più di un'ora e mezzo prima, stavo giocando con i ciottoli ingialliti sotto la scogliera artificiale. Ma andar si doveva... Addio, Basilea! (p. 11)
Comincia così la nuova vita del piccolo Lojze (Bubi non è altri che lo scrittore, e la storia narrata è la sua) che, sradicato dalla sua infanzia, migrante suo malgrado, dovrà cercare di ricostruirsi un'identità in terra straniera. Un posto che il piccolo, seduto sul treno che lo porta a Lubiana, via dai suoi luoghi natii, immagina pieno di cavalli, tanti cavalli e puledri con cui lanciarsi al galoppo per verdi praterie. Già da queste prime pagine possiamo saggiare la grandezza dello scrittore nell'esprimere il senso di attesa, l'eccitazione del ragazzino, la voracità di futuro nei suoi occhi spalancati, mentre tra le righe cogliamo accenti desolati dati dalla consapevolezza, avvenuta tardivamente, della frantumazione di un'illusione. Il lavoro di cesello dello scrittore starà proprio nel raccontarci le vicende del piccolo Lojze in modo dettagliato, con uno stile incalzante e immaginifico, che, descrivendo ogni esperienza con gli occhi di sé bambino, fa in modo che il lettore viva ogni pagina in un presente continuo, non come un ricordo dell'ormai adulto scrittore. 
Ahi, quanto si discosterà da queste fantasie infantili la realtà per il povero Bubi. Nella Dolenjska, la campagna dove abita lo zio Karel, fratello di papà, lo aspetta un mondo ancestrale, quasi primitivo, tribale per certi versi, legato alla terra, al fango, agli animali, un mondo nel quale anche le relazioni umane paiono guidate soltanto dall'istinto e i contadini sembreranno al piccolo Lojze, abituato al vivere cittadino, esseri quasi barbarici: i bambini più piccoli sporchi di mota ed escrementi animali, coperti solo da un camicino, con una manina in bocca e l'altra sul pisellino, i cugini più grandi, forzuti e nerboruti, abituati come le loro bestie a quella vita di fatiche, gli adulti abbruttiti dal lavoro e dalla povertà. Un mondo che all'arrivo di Bubi e famiglia si chiude a riccio, temendo che gli odiati stranieri, cittadini, delicati, inadatti persino a zappare, vengano a mangiare pane a tradimento. E perciò stesso i parenti non si faranno scrupoli nel vessarli con privazioni e umiliazioni.
Lojze si rifiuterà di adattarsi a questo imbarbarimento e il suo rifiuto prenderà la forma dell'incapacità a imparare la lingua nuova, lo sloveno. Motivo che scatenerà ancor di più la derisione dei compagni e il disagio a scuola. E quando la famiglia Kovačič, stanca dei soprusi, si trasferirà a Lubiana dove il padre pellicciaio ha trovato un misero lavoro, per Lojze le cose non cambieranno molto: sono anni duri, la guerra è alle porte ed essere bambini poveri di città non è un bell'affare. Il bimbo imparerà ben presto la dura lotta per la sopravvivenza, per un boccone di pane, per un paio di scarpe malmesse, per un giubbettino logoro. Imparerà a salvare la pelle, a temere i ragazzini di bande rivali, in pagine che ricordano un po' le atmosfere de "I ragazzi della via Paal". Imparerà a diventare grande. Senza mai sentirsi davvero a casa, senza mai percepire quella lingua come propria, quella città come sua, quella gente come amica. Ed è questo il vero cuore dell'opera, lo spaesamento, la difficoltà di integrarsi in un posto nuovo, che sembra impossibile chiamare patria.
"Il bambino in esilio", che risale agli anni 1983-85, è annunciato come il primo libro di una trilogia, quella de "I migranti" (Prišleki) che in America è già arrivata al secondo volume. Un giornale specializzato l'ha definito "one of the great novels of dislocation", e la parola, non facilmente traducibile in italiano, contiene in sé il significato di spostamento, ma anche di sconvolgimento emotivo dovuto a un trasferimento, all'abbandono della patria, il senso di vuoto, di straniamento insomma. Nel libro di Kovačič questa sensazione, così tipica del migrante, di chi è stato costretto ad abbandonare i suoi punti fermi, si esprime attraverso la lingua: per il piccolo imparare lo sloveno è estremamente difficoltoso, il suo accento tedesco, lingua che continua ad essere utilizzata in famiglia, lo rende irrimediabilmente diverso da tutti gli altri, marcando espressivamente l'impossibilità di aderire al nuovo contesto.
E come in uno specchio anche la scelta linguistica dello scrittore segna questa difficoltà: Bubi parla una lingua strana, mezzo tedesco, mezzo sloveno, una sorta di gergo tutto suo. Immagino quanto sia stata ostica la traduzione dal testo originale, qua e là lo si percepisce nei vocaboli scelti dalla traduttrice, nella cui prosa entrano esempi di lectio difficilior o di lemmi poco o per niente utilizzati ("impillaccherata", "grugare"). La scelta stessa di lasciare intere frasi in tedesco, che rappresentano una percentuale molto alta nel dialogo, può lasciare sorpreso il lettore che si deve abituare fin dall'inizio a cercare nelle note l'italiano. Un doppio binario, quello sloveno-tedesco, presente nel testo originale che, in italiano, si è scelto di lasciare (come del resto anche nell'edizione americana) per marcare la lacerazione del piccolo Bubi.
Che fortuna avrà questo libro? Difficile dirlo. Io mi auguro tanta, spero che i librai lo leggano e lo consiglino. Perché da noi, purtroppo, è già passato quasi inosservato: il romanzo era già stato infatti pubblicato nel 2013 da Zandonai, una piccola casa editrice di Rovereto (purtroppo chiusa qualche anno fa) che aveva il grandissimo merito di gettare un occhio al di là del confine per pescare gemme preziose in tutta quella letteratura, chiamiamola così, "balcanica", che da noi ha sempre inspiegabilmente fatto fatica a farsi conoscere, in particolare quella dell'area ex jugoslava. Anche se forse ultimamente qualche nome riesce a bucare la cortina, per esempio Gordana Kuič o Slavenka Drakulic. E sullo sfondo Aleksandar Hemon, bosniaco, ma naturalizzato statunitense che ha scelto di scrivere in inglese.
Lojze Kovačič, scomparso nel 2004, forse ha scontato un po' questa tendenza e da noi è rimasto pressoché sconosciuto. Chissà, può essere che la scelta di riscoprire questi volumi (attendiamo con ansia gli altri due della trilogia) da parte di una casa editrice, che ha fatto delle scelte a volte non consuete la sua cifra, possa restituire un po' di gloria a uno scrittore che è considerato una delle voci più grandi della letteratura slovena del Ventesimo secolo.

Sabrina Miglio