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#CritiCINEMA - I perché di una trasposizione cinematografica distrutta dalla critica: "Elegia americana" (Hillbilly Elegy) di Ron Howard

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Nel 2016 (e in Italia nel 2017) fu pubblicata l’opera d’esordio di un trentenne americano che, al di là delle sue doti letterarie, aveva fatto scalpore e aveva scalato le classifiche per la sua rilevanza sociale, chiara fin dal sottotitolo, assente nella traduzione italiana: Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis (letteralmente: «Memoir di una crisi familiare e culturale»). Nato nei territori dei cosiddetti "hillbillies", le zone povere e rurali dei monti Appalachi abitate principalmente da bianchi, J.D. Vance racconta la storia di come è riuscito a lasciarsi alle spalle un contesto familiare di povertà e abuso di droga per arrivare a studiare legge a Yale: eppure fin dal titolo è chiaro che per lui la sua situazione personale altro non era che uno spaccato dei problemi che, da bambino, testimoniava tutto attorno a sé, situazione che Vance collega anche alle scelte politiche sempre più repubblicane di questi territori. In un’epoca in cui è sempre più difficile per i giovani “farcela” in contesti economici e sociali avversi, la narrazione eroica di J.D. utilizza la sua esperienza per affermare che in qualsiasi contesto “farcela” sta all’individuo, in quanto le condizioni materiali ed economiche di contorno non sono poi così importanti. Il problema è che portare questa spiegazione individualista sugli schermi nel 2020 stona terribilmente nel contesto degli Stati Uniti piagati economicamente da una pessima gestione della pandemia da Coronavirus e socialmente dagli orrori del razzismo che hanno causato il movimento di Black Lives Matter. 

Il film, che molti hanno rilevato essere stato fatto e confezionato apposta per gli Oscar, è senza dubbio un po’ semplicistico e favolistico nella sua narrazione dei fatti. Se molti hanno criticato l’utilizzo del topos della corsa contro il tempo, con J.D. che torna nel suo paese natale per aiutare la madre a riprendersi da un’overdose proprio il giorno prima di un’importante intervista di lavoro da cui sarebbe dipesa la sua capacità di pagarsi un altro anno di studi, è anche vero che il ritmo del film ne giova: i flashback tra presente e passato causati dal ritorno di J.D. al suo paese natale contribuiscono a trasformare il tono necessariamente autoreferenziale di un memoir in un film che, in tre giorni, vuole dare l’immagine di un eroe americano che, a partire da un’infanzia complicata, continua a combattere ogni giorno per arrivare lontano. Un eroe che può essere chiunque. Il problema è proprio che non tutti possono essere J.D.: la menzione rapidissima della violenza domestica subita dalla madre e dalla nonna e l’assenza di persone di colore al di fuori della fidanzata di J.D., personaggio meramente di supporto, ci ricordano dolorosamente di tutte le sofferenze trasversali che piagano gli Stati Uniti e non solo, e se da una parte siamo tentati di farci riempire di coraggio dalla storia di J.D., non riusciamo a farlo fino in fondo. Sarebbe però stato bello vedere questa contraddittorietà nel film, che invece sembra voler ostinatamente concentrarsi su quelle istanze sociali che sono narrativamente strumentali al trionfo del protagonista: questa incompletezza viene solo evocata dolorosamente negli spettatori nel momento in cui l’empatia e insieme l’ammirazione per J.D., la quale probabilmente sarebbe dovuta essere la chiave dell’effetto Oscar, non scatta. 
Copertina dell'edizione
italiana del memoir di J.D.
Vance, edito da Garzanti

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Perfino per quanto riguarda la situazione di diffusione e dipendenza da oppiacei, una delle più grandi e più ignorate piaghe degli Stati Uniti contemporanei (se volete saperne di più, vi consiglio la lettura di Questa è l’America di Francesco Costa, autore di cui qui trovate l’intervista) poco o nulla viene argomentato: alla chiusa del film troviamo la madre tossicodipendente di J.D., interpretata da una spettacolare Amy Adams, lasciata in una stanza di motel, con una siringa frantumata nel water, mentre il figlio riparte verso il Connecticut. Le sue evidenti patologie psicologiche, dimostrate a più riprese nel film, continuano ad essere non diagnosticate, non c’è ancora spazio per lei nel sistema medico americano, privatizzato e costosissimo, e se il figlio riesce a conseguire una prestigiosissima laurea, lei, che fu migliore studentessa del suo liceo, è lasciata indietro: non dal figlio, che giustamente riparte verso il suo futuro, ma da un sistema che no, non dà le stesse opportunità a tutti, e che il film fallisce nel criticare. E se il 2020, con i suoi scontri sociali, i suoi disastri economici, e i suoi avvenimenti politici, hanno dimostrato qualcosa ai cittadini americani, è proprio questa profonda diseguaglianza. 

Dunque, sebbene il film sia stato tendenzialmente epurato dalle implicazioni politiche del libro, possiamo comunque utilizzare il film da cittadini non americani per cercare di comprendere le problematiche di quelle zone estremamente repubblicane degli Stati Uniti, di cui, magari, si parla poco. Osservare da vicino un dettaglio di un quadro molto più ampio è sempre utile alla comprensione totale, sebbene questo dettaglio stoni e strida nel contesto di un anno che, nel bene o nel male, ci ha insegnato molto; cerchiamo di non dimenticare le sue lezioni.

Marta Olivi