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«Credete che la mia storia sia finita? E se non facesse che ricominciare?»: l'atomica secondo Alcante, Bollée e Rodier

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La bomba

sceneggiatura di Didier Alcante e Laurent-Frédéric Bollée
illustrazioni di Denis Rodier
traduzione di Fabrizio Ascari

L’ippocampo, 2020


pp. 472
€ 29,90 (cartaceo)


«In principio non c’era nulla. Ma in quel nulla c’era già tutto! (…) Fui battezzato nel 1789. Mi chiamarono uranio, con riferimento, sembra, a un pianeta che avevano scoperto da poco. Personalmente preferisco vedervi un collegamento con Urano, dio del cielo nella mitologia greca. Unendosi alla Terra, questi generò tra gli altri i giganteschi Titani. Dal suo sangue nacquero le Furie. Anch’io, lo sento, darò vita a tante cose!».

Avete capito bene: a prendere la parola in quello che è l’incipit di La bomba, la graphic novel sull’origine dell’ordigno atomico appena pubblicata da L’ippocampo nella sua versione italiana, è proprio lui, “sua maestà” l’uranio. Certo pare strano attribuire una qualche regalità a questo elemento dal cursus honorum così controverso, eppure la magniloquenza delle sue parole – modulate in modo tale che fin da subito risuonino come le profezie di un predestinato – ricorda l’oratoria ampollosa e fanatica di certi sovrani assai poco illuminati. Perché è proprio così: debitamente personificato e prescelto come voce narrante di raccordo, questo metallo pesante annuncia già dalle primissime pagine il futuro della sua tirannide, una forma di potere in cui le scoperte scientifiche più avanguardistiche e gli equilibri politici internazionali illuderanno gli uomini di essere detentori di una forma di potere apparentemente imbattibile, ma che li renderà, viceversa, schiavi e vittime di se stessi. Il resto, come si dice, è Storia. Una storia illustrata da Denis Rodier e sceneggiata da Didier Alcante e Laurent-Frédéric Bollée.

Esito di diversi anni di studio e di lavoro, La bomba è un progetto editoriale complesso, venuto alla luce dopo una lunga meditazione che ne ha riguardato innanzitutto i presupposti di necessità. Per quanto possano essere note, difatti, occuparsi delle vicende che culminarono nell’annientamento di Hiroshima e Nagasaki non è e non può essere mai un’operazione neutrale: troppo grande la tragedia a livello mondiale, troppo profonda la cesura nella coscienza collettiva, troppo evidenti i segni e i postumi sull’identità delle due città giapponesi (e non solo). Al punto che poche narrazioni – ancora oggi e al netto di tutti gli studi e le rielaborazioni anche artistiche dell’accaduto: si pensi solo al celebre film Hiroshima mon amour di Alain Resnais (1959) – sembrano avere un senso oltre a quelle affidate alle testimonianze dirette dei sopravvissuti. L’impostazione degli autori, tuttavia, non è stata certo quella di perseguire l’originalità ad ogni costo (soluzione che, quando adottata, produce spesso l’esito di una stravaganza fine a se stessa). Di contro, il loro intento è stato quello di raccontare la vera e propria genesi dell’ordigno, dalla pura ipotesi della sua realizzazione alle circostanze che ne determinarono il primo e fatale utilizzo. Esaltata dalle tavole in bianco e nero di Denis Rodier, il cui stile realista si è rivelato perfetto per illustrare vicende che fondono insieme atmosfere da reportage e da documentario con quelle dei classici film di guerra e di spionaggio, la storia si rivela nelle sue progressive stratificazioni, con le sorti del pianeta oscillanti tra le ambizioni dei singoli Stati interessati alla messa a punto della nuova arma e la quotidianità al tempo del secondo conflitto mondiale. Le personalità degli esponenti politici del momento, delle alte gerarchie militari e degli scienziati dediti alla causa si alternano così all’anonimato dei soldati semplici, dei poveri diavoli inconsapevoli di essere usati come cavie per la sperimentazione degli effetti dell’uranio sull’uomo e dei cosiddetti civili, vittime di un conflitto che non avrà pietà di loro. Un teatro tragico in cui, vale la pena notarlo, non c’è praticamente mai spazio per le donne, fatta eccezione per segretarie servizievoli, centraliniste efficienti, mogli e figlie tenute all’oscuro degli eventi da mariti e padri, oppure per personaggi agli antipodi come la compagna di Enrico Fermi e una madre giapponese senza precisa identità, simbolo di tutte le madri destinate a una morte atroce la mattina del 6 agosto 1945; proprio la vicenda di quest’ultima, tra l’altro, rappresenta la sola concessione a un innesto finzionale nell’intera graphic novel insieme con il caso del signor Naoki Morimoto (guarda caso un vedovo), operario in una fabbrica militare e padre di due figli maschi (di cui uno soldato e futuro kamikaze). Una scelta non superflua e che anzi sembra servire agli autori per veicolare un messaggio critico e di condanna senza alterare la verità storica: proprio nell’ombra nera di Morimoto, che si fissò per sempre sui gradini della banca su cui si era seduto poco dopo essere uscito di prigione e pochi attimi prima dell’esplosione fatale, l’uranio riconosce il sigillo della propria atrocità: «quell’ombra è la mia forma, forse la mia anima… certamente il mio potere», annuncia l’elemento: «possa ossessionarvi per sempre!».

Maestoso, imponente e per certi versi epico, La bomba è uno di quei contributi che contraddicono ulteriormente i pregiudizi (purtroppo sì, ancora esistenti) sulle trasposizioni a fumetti di “storie” già note, siano esse biografie, romanzi, racconti o, come in questo caso, eventi di portata epocale. Vuoi per la mole di quasi cinquecento pagine, vuoi per la complessità della vicenda e per la sua evidente attualità, il lavoro a sei mani di Didier Alcante, Laurent-Frédéric Bollée e Denis Rodier è tutto fuorché una semplificazione a uso e consumo di un pubblico non abbastanza volenteroso da affrontare la forma meno accattivante del manuale o del saggio.  E se ciò accade lo si deve non solo all’impossibilità di ridurre la vicenda a una serie di contrapposizioni tra buoni e cattivi o a una concatenazione di cause ed effetti da mandare comodamente a memoria, ma alla consapevolezza da parte degli autori che qualsiasi contributo in più sulla tragedia del nucleare dovesse in qualche modo dimostrare di avere diritti e ragioni meno ovvie della pur legittima libertà di espressione. Per questo chi sfoglia le pagine di questo albo percepisce senza equivoco il senso di grande rispetto e responsabilità che anima il lavoro degli sceneggiatori e dell’illustratore, testimoniato non solo e non tanto dai testi a loro firma in coda al volume quanto dalla sinergia di parole e immagini, dunque essenzialmente dalla resa artistica (fatta a pari merito di scelte narratologiche ed estetiche). Lungi dal pretendere di dire l’ultima parola o tracciare l’ultima linea – lo testimonia anche la ricca bibliografia che rimanda a libri, articoli, riviste, fumetti, siti internet e documentari – La bomba è un libro che non vuole e non può “chiudere”. E che la riflessione sia sempre aperta, del resto, lo rimarcano proprio le ultime battute, che nel conferire all’opera un andamento circolare affidano al “narratore” deputato gli interrogativi più urgenti e più attuali stimolati anche dall’evidenza delle cronache più recenti:

«oggi, nove paesi possiedono l’arma nucleare, che nel frattempo è diventata assai più devastatrice. L’arsenale mondiale è composto da circa 15.000 ordigni. Cinque volte meno che durante la guerra fredda, ma ancora largamente sufficienti ad annientare parecchie volte il pianeta. Credete che la mia storia sia finita? E se non facesse che ricominciare?».



Cecilia Mariani