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"Luna nera": streghe, alchimiste. Siamo caos, siamo tempesta.

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Luna nera. Le Città Perdute
di Tiziana Triana
Sonzogno, novembre 2019

pp. 528
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Siamo ribelli. Siamo tempesta. Siamo streghe. Siamo le eroine fuggiasche di Luna nera, il primo volume della trilogia scritta da Tiziana Triana e appena approdata anche tra le serie tv su Netflix. Un "fantasy" femminista – se proprio vogliamo dargli un’etichetta – italianissimo per ambientazione, la campagna laziale, ma dal forte respiro internazionale e la scrittura cinematografica, che avvince per la storia intrigante e misteriosa, l’avventura, il desiderio di sciogliere i numerosi enigmi della trama. È un romanzo godibile e ambizioso, in cui talvolta si inciampa in qualche debolezza tra piccole incongruenze e una sovrabbondanza di storie, tematiche e spunti, ma in generale una lettura che permette di riflettere ancora su argomenti sempre attuali: l’ingiustizia, il patriarcato, l’ignoranza che genera sospetto e paura, il diritto alla libertà.
Triana lo fa calando le sue protagoniste nell’Italia del XVII secolo, dove l’indipendenza e il sospetto si pagavano con l’accusa di stregoneria e il rogo. Ne è vittima – della paura generata dall’ignoranza – la protagonista, Ade, costretta a fuggire insieme al fratellino Valente per sottrarsi alle conseguenze dell’accusa di stregoneria; ne sono state vittime e continuano a esserlo, le Città Perdute, la comunità femminile che li accoglie, li istruisce, svelandone pian piano il destino e la vera natura.
Fuggire, lasciandosi dietro una vita, una casa modesta ma piena di ricordi e momenti di felicità:
Ora che la porta si era chiusa per sempre, Ade si sentì improvvisamente triste. Non era paura, e nemmeno nostalgia, ma un sentimento più simile alla desolazione. Come quando muore una persona amata e il senso di vuoto scava una voragine di cui nessuna torcia riuscirebbe a illuminare il fondo. Ade strinse i pugni e ricacciò ancora una volta indietro le lacrime, non c’era più tempo per i rimpianti. Quella casa non era più il suo nido e quella porta non poteva più difenderla. Si aggiustò il cappuccio e sistemò anche quello del fratello, guardò dritto davanti a sé senza più voltarsi indietro e puntò verso il centro del bosco, la parte più buia e scura, dove di giorno neanche i raggi del sole riuscivano a filtrare. (p. 61)
Abbandonando ciò che si era conosciuto fino a quel momento e che è andato perduto quando per una fatalità Ade, la levatrice, non è riuscita a salvare il neonato di uno degli uomini più pericolosi del paese, quello che per sua natura e destino è tenuto a combattere contro il male e il peccato. Agli occhi di Ade si rivela un mondo molto diverso da quanto credeva di conoscere, di cui fino a quel momento aveva scalfito solo la superficie:
I Benandanti. […] Ade ne aveva sentito parlare a Torre Rossa, sapeva che erano dei “predestinati” – così le aveva detto sua nonna – , uomini che nascono differenti, con il compito di combattere il male e i malandanti. «Quindi ci proteggono, nonna?» «Fino a quando non diventiamo il male, piccola mia» (p. 209)
Il male sono loro. Streghe. E per questo condannate al rogo. Triana immagina un mondo terribilmente verosimile, in cui l’odio è «alimentato da sospetto e paura» e per una donna, specie se sola e poco incline a essere remissiva, diventa sempre più difficile sottrarsi al giudizio e alla condanna. Lontano, in città, in una Roma corrotta e decadente, forse è più facile sfuggire allo spettro dell’Inquisizione, ma nei remoti paesi di campagna basta un solo sussurro, un solo sospetto per condannare per sempre e scatenare la violenza di quel gruppo che afferma di compiere il volere di Dio – non è sempre questa, alla fine, la ragione di tante, troppe violenze? – , i Benandanti, predestinati a scovare il male
Ognuna di loro, Città Perdute, ha trovato rifugio in quella casa nel cuore del bosco e diventata una comunità, una famiglia, riparo da un mondo che le ha perseguitate, violate, condannate a morte. Ed è qui che sono nate una seconda volta, abbandonando il passato e la vita che era per assumere una nuova identità ed essere finalmente sé stesse, libere e fiere. Leptis, Janara, Tebe, Segesta e molte altre, raccontano sulle loro pelle la violenza, il sospetto, l’accusa, da cui sono scappate: storie diverse, ma quasi sempre accomunate dalla furia degli uomini che le hanno condannate chiamandole streghe.

Ma chi sono veramente? È questa, in fondo, la domanda al cuore della storia, chi siamo e da che parte scegliamo di stare, un interrogativo che vale tanto per le Città Perdute, per Ade e Valente, quanto per gli uomini che danno loro la caccia e per quelli che si trovano nel mezzo, tra l’Inquisizione della Chiesa cattolica, il dubbio, il peso della scomoda eredità famigliare, l’amore.
Ci sono tutti gli elementi per farne un romanzo avvincente, ricco di tematiche e spunti che spingono il lettore a riflettere su argomenti che – in forma diversa ovviamente – restano ancora terribilmente attuali. Certo, siamo lontani dalle vette letterarie di testi come Il racconto dell’ancella, Ragazze elettriche, La camera di sangue, Vox, solo per citarne alcuni; la scrittura di Tiziana Triana è puntuale e l’idea di fondo interessante, come si accennava però la sovrabbondanza di temi e storie correlate rischia di soffocare, perdendo di vista ciò che è davvero narrativamente importante e su cui valeva la pena concentrarsi maggiormente, spingendosi anche un po’ più oltre, osando di più. Ha del potenziale e nel complesso è un romanzo meritevole, cui si perdonano qualche debolezza di fondo e alcune incongruenze.

Addentrandosi in questa storia ricchissima di altre storie e spunti, è inevitabile soffermarsi con particolare attenzione su alcuni di questi elementi a partire, ovviamente, dal tema centrale del romanzo, l’ingiustizia da cui scaturisce la violenza e la persecuzione contro le donne, la discriminazione di genere, la sopraffazione. Streghe oppure no, sono donne che in qualche modo non si sottomettono: alla morale e alle leggi decise dagli uomini, al proprio destino, alla paura stessa. E per questo sono perseguitate, cacciate, emarginate. Ed è proprio da questa disparità, dall’ingiustizia, che nasce la comunità delle Città Perdute, un riparo sicuro, una famiglia:
«Nonostante questo, nonostante il nostro incessante lavoro, le donne là fuori continuano a morire: perseguitate, torturate, rinchiuse in celle umide o imprigionate nei conventi contro il loro volere. Non hanno la libertà di decidere della loro vita, sono costrette a matrimoni senza amore, a lavori massacranti e a crescere figli che andranno a morire in guerra. Se c’è anche solo una debole speranza di cambiare tutto questo, io la voglio percorrere, Leptis». (p. 324)
È qualcosa di tangibile, reale, che la Storia ci ha consegnato in molti modi diversi e, in certe forme, non smette purtroppo di raccontare. E ancora oggi, con le scelte di ogni giorno, dobbiamo decidere chi siamo e da che parte stare. Come nella vicenda di Ade e delle sue sorelle, anche il “nostro” mondo non è nettamente diviso tra buoni e cattivi, il confine tra bene e male talvolta si fa labile e a sostenere i diritti di ogni essere umano, indipendentemente da sesso e razza, siamo chiamati tutti quanti, donne e uomini. Un mondo che non dovrebbe dividersi mai, in nessun caso, tra noi e loro e dove essere femministi vada al di là del genere sessuale.

Sono interessanti gli uomini che popolano il romanzo di Triana: spaventati da ciò che non comprendono, taluni così sicuri delle proprie ragioni e di una posizione di potere acquisita per diritto di nascita, altri ogni giorno preda del dubbio, sulla fede, sulle motivazioni che li muovono, in generale su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Il richiamo del sangue, un destino che pare già scritto, la fede che si scontra con la brutalità di quanto accade nel mondo, contro l’ingiustizia, la ragione e la scienza con cui tentare di sconfiggere l’ignoranza che genera sospetto e paura. E l’amore, ovviamente, proprio quello che non dovrebbe nascere tra due fazioni in guerra e che non può fare altro che portare alla rovina, come da tradizione, ma che Triana riesce a tratteggiare senza scadere nello stereotipo.

Ci sono tante altre storie dentro questa storia, ognuna con il proprio peso di ingiustizia, violenza, disperazione che, come si è detto, a tratti tendono ad appesantire un po’ troppo la narrazione pur rimarcando lo spirito del romanzo, quel desiderio di far sentire forte e inconfondibile la voce delle donne e il nostro desiderio di libertà, contro ogni costrizione.
Che ci chiamino streghe, alchimiste, pazze o puttane. Siamo tempesta, lo siamo sempre state.
«Io so chi siete e cosa fate: qualcosa di molto più pericoloso della magia. Voi e le vostre sodali create una speranza». (p. 456)

Debora Lambruschini




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