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#PLPL19 - Quando la letteratura diventa provocazione. Incontro con Eduard Limonov

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Incontrare Limonov significa vedere rovesciate tutte le proprie certezze sul ruolo dell’arte e della letteratura e scoprire che non tutti gli scrittori vedono nella loro attività il senso primario della vita. Ce ne sono alcuni, come Eduard Limonov, che si considerano «un individuo unico, non c’è il Limonov scrittore e il Limonov politico». L’ego letterario che spesso trasuda da ogni poro degli autori quando si relazionano con la platea in una presentazione o conferenza, allora, si sgonfia accasciandosi su se stesso come uno di quei pupazzi agitati dall’aria davanti alle concessionarie di automobili usate. Ecco perché incontrare Limonov è certamente l'esperienza da fare per capire quanto può essere forte il nostro amore per la letteratura.

Grazie a Sandro Teti Editore nel corso dell’ultima edizione di Più libri più liberi le occasioni di incontrarlo sono state duplici. Domenica 8 dicembre si è infatti tenuta la presentazione del suo ultimo romanzo, Il boia, moderata da Giuseppe Cruciani e con la presenza di Sandro Teti in qualità di traduttore, e successivamente CriticaLetteraria ha partecipato a un incontro privato ed esclusivo con lo scrittore: un salotto più riservato e meno orientato della presentazione pubblica. Il tenore di questa, per volontà del moderatore più che dello scrittore (che tuttavia sguazzava felice nel tono impostato), è stato quello di un dibattito sul tema della politica populista e del politicamente scorretto in epoca moderna. Si è parlato molto poco del romanzo uscito il 5 dicembre, se non quando Limonov l’ha paragonato a Joker perché nel film «c’è la stessa città del romanzo e ho ritrovato lo stesso trattamento riservato alle fasce deboli della società. Sono rimasto davvero molto infastidito durante la visione del film perché mi sembrava di essere tornato a New York quando ci abitavo io» o quando ha detto che il libro non parla di lui perché «ero giovane e muscoloso e ora sono vecchio. Inoltre Oscar (il protagonista) non sono io. Un giorno mentre abitavo a New York ho incontrato un polacco e ho deciso di scrivere di lui. Non è un racconto autobiografico, semplicemente ho riportato quello a cui assistevo vivendo in città agli inizi degli anni Ottanta»

Il boia
di Eduard Limonov
Sandro Teti Editore, 5 dicembre 2019
traduzione di Federico Pastore

pp. 200
16,00 €

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Il resto è stato un continuo indugiare sui temi caldi e divisori dell’opinione pubblica contemporanea: populismo, femminismo e razzismo. Limonov non ha dubbi sul considerare delle forzature tutte le ideologie circolanti nel mondo di oggi, dal razzismo che «è una categoria psicologica e mentale messa in piedi da chi vuole ostacolare gli altri partiti, il razzismo non esiste più, soltanto i bianchi vivono meglio dei neri e delle donne» al recente movimento femminista del #metoo:
È vero, le donne in passato sono state schiavizzate e adesso dobbiamo aspettarci la guerra di genere, ma il movimento del #metoo è solo il modo che le donne hanno trovato per speculare, io credo che ci sia qualcosa di losco sotto.
Parole forti (e da cui personalmente prendo le distanze), ma che servono a capire meglio la fisionomia di un uomo che non ha alcuna remora ad esprimersi in maniera così radicale nonostante
viviamo nell’era del politicamente corretto, non si può più parlare perché esistono lacci che poi si dimostrano essere solo delle manifestazioni ipocrite. Pensate che in Russia, dove la classe dirigente è pessima tanto quanto quella che avete in Italia, stanno bollinando tutto, dai libri ai film, per tutelare i minori, così come stanno coprendo le etichette degli alcolici. In realtà non è per i bambini che lo fanno, ma per infantilizzare la società.
E lui, da questi lacci, non ha alcuna intenzione di farsi contenere nemmeno quando Cruciani, che non poteva certo smentire la sua natura polemica in questo incontro, vira la discussione chiedendogli, prima, di Salvini: «Salvini sta facendo bene, tanto che tornerà presto al potere superando il 40% dei consensi», e poi di Emmanuel Carrère, lo scrittore francese che con il suo Limonov ha venduto più di 600mila copie solo in Francia:
Che rapporto posso avere io con Carrère? Lui è figlio di due alto borghesi, io sono un politico estremista. Di tutte le copie che ha venduto in Francia e nel mondo (il romanzo è stato tradotto in più di trenta lingue) io non ho visto un soldo. Per di più lui ha espunto degli episodi importanti della mia vita e mi ha ritratto nel modo che sapeva avrebbe fatto piacere agli intellettuali di tutto il mondo. Non ha avuto remore a dipingermi come un idiota. Eppure non lo invidio e del resto è grazie a lui se ho vissuto una seconda vita.
Nel corso dell’incontro con i blogger è stata per fortuna abbandonata la patina populista e demagogica che aveva ammantato la presentazione precedente e, pur avendo sempre di fronte un interlocutore dalla parlata ostile, sono state toccate questioni più spiccatamente letterarie e legate a Il boia, il noir che racconta di un polacco emigrato negli Stati Uniti che decide di dedicarsi a pratiche sadomaso per trovare un senso alla propria esistenza:
Il fatto che io l’abbia scritto a Parigi non ha avuto nessuna influenza sul romanzo perché il mondo letterario a cui guardavo era quello anglosassone. Chiedete a un critico se la città mi ha in qualche modo influenzato sulla scrittura! Io so solo di aver scritto quello che vedevo direttamente vivendo a New York. Tra i protagonisti non c’è nessuna logica, i loro rapporti sono del tutto casuali. Io ho voluto raccontare dei personaggi e non delle relazioni. Non so neanche dirvi se il sadomaso fosse, a quel tempo o adesso, una risposta alla noia. So solo che era quello che vedevo e quindi l’ho raccontato. In quegli anni a New York chi teneva quello stile di vita veniva perseguitato al pari dei comunisti, ecco perché ne volevo parlare. Le foto scattate da me e inserite nella prima edizione e che adesso non sono più presenti nelle edizioni successive? Non avevano alcun significato, non contavano nulla. Non capisco perché mi chiediate di queste foto!
A chi gli chiede del significato della morte, in questo come in altri suoi romanzi, risponde che vedere le storie sotto la luce della morte è un modo di interpretare i testi da vecchia scuola critica e letteraria; lui racconta solo ciò che va fatto e ciò che non va fatto in un determinato momento. Così come, per lui, è anacronistico continuare ad andare a scuola dopo i primi anni della scolarizzazione di base:
Non ha alcun senso, l’insegnamento è rimasto uguale a cento anni fa, sarebbe meglio far lavorare i giovanissimi e permettere loro di sposarsi perché l’amore fa crescere e spinge a porsi delle domande.
Del resto dichiara apertamente di non aver alcun tabù e senza peli sulla lingua si scaglia anche contro la cultura contemporanea:
Gli intellettuali hanno perso qualunque ruolo nel mondo. In generale l’intellighenzia non ha alcun motivo di esistere e non ha alcun ruolo nella nostra società. Non amo la letteratura russa contemporanea perché non è abbastanza intelligente.  Servono nuove voci e nuovi pensieri. Freud e Marx sono ormai desueti, forse Malthus andrebbe rivalutato, ma in generale tutti i sistemi del Novecento sono crollati. E badate bene, dico i sistemi, non le idee in toto. Io continuo a considerare Genet e Pasolini due miei modelli.
Infine, la chiosa tocca inevitabilmente il ruolo della Russia nello scacchiere politico contemporaneo:
Ci pensate? La Germania non mi ha ma invitato perché mi ritiene un fascista! Che ribaltamento paradossale di prospettiva è avvenuto tale da far considerare la Russia come il Paese che favorisce i governi di destra. Questo perché il russo è stato prima demonizzato e adesso usato come cuscinetto per contenere la Cina.

Cronaca a cura di Federica Privitera.