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#CriticaLibera - Rileggere "Piccole donne" a trent'anni. Il modello letterario e umano di Louisa May Alcott

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Piccole donne, di Greta Gwig, 2019 (con Emma Watson, Florence Ough, Saoirse Ronan, Eliza Scanlen e Meryl Streep)
Oggi è il compleanno di Louisa May Alcott. Il 29 novembre del 1832 nasce infatti una delle poche autrici che posso definire fondamentali nel mio percorso di lettrice e di donna e sono sicura che vale lo stesso per molte altre ragazze (e, spero, ragazzi) nel mondo. Così quest’anno, il trentesimo della mia vita, ho deciso di rileggere il capolavoro della scrittrice americana e ho provato a guardare alla bambina di allora con gli occhi dell’adulta di oggi e ricordare di cosa era composta quella magia chiamata Piccole donne.

L’immagine che ho di questo romanzo cammina di pari passo con la mia biografia: tra i 6 e gli 11 anni mi sono ritrovata a cambiare molte case prima di approdare in quella in cui, ancora oggi, vivono i miei genitori. Si sa quanto possano essere traumatici i traslochi: penso ai bambini e agli animali, creature indifese che non sanno nulla dell’organizzazione, dell’inscatolamento, delle pulizie e del riordino, ma sanno solo che i loro punti di riferimento vengono a mancare nel momento in cui si cambia abitazione. Il senso di smarrimento è, allora, dietro l’angolo. Io, in verità, non ho mai subito i contraccolpi del cambio di casa. Forse già a quell’età ero in grado di abitare in quell’altra dimensione che, all’inizio, aveva sede a Paperopoli e Topolinia e successivamente albergava nella biblioteca dei classici per bambini. È lì che ho trovato la mia personalissima coperta di Linus: un’edizione tascabile Edizioni Polaris di Piccole donne di Louisa May Alcott, letto intorno agli 8 anni. A partire da quel momento, qualunque fosse il posto che avrei dovuto chiamare casa, lì ci sarebbe stata una mensola in cui il mio libro del cuore avrebbe dovuto spiccare in bella mostra. E non da solo: perché se finite le avventure di Meg, Jo, Amy e Beth iniziai a immaginare il destino delle giovani protagoniste, non ci misi molto a scoprire che la cara Louisa aveva scritto proprio i libri in grado di soddisfare la mia sete di sapere e non lasciarmi più orfana: Piccole donne crescono, Piccoli uomini, I ragazzi di Jo. E se è vero che avvertivo già allora una minor qualità narrativa e ideologica dei sequel rispetto a Piccole donne, è vero anche che è stata Louisa May Alcott a insegnare alla me bambina il piacere di leggere le saghe e di innamorarsi di storie in grado di accompagnarmi a lungo nel tempo (coadiuvata, contemporaneamente, dalla lettura di un allora sconosciuto maghetto di Hogwarts).
La mia prima edizione di Piccole donne
La Alcott aveva ancora un altro asso nel suo cilindro: il magico processo di identificazione con un personaggio di fantasia, cosa che ho iniziato a fare proprio con Jo, ma che che mi sono resa conto, purtroppo, di non fare più da molto tempo: adesso riesco a emozionarmi, a sentirmi lacerata dentro per ciò che trovo scritto in un libro, ma questo non ha nulla a che vedere con il viaggio compiuto dalla fantasia. È più il peso della memoria e dell’esperienza che gravano su ogni pagina incidendo ferite su di me a partire dalle storie altrui.
Ma la bambina di 22 anni fa riceveva un ultimo, preziosissimo insegnamento: lottare per la libertà di essere se stessi, sempre, purché si rispetti la libertà altrui. Jo incarna tutto questo. Da bambina non potevo non amare quel maschiaccio senza redini ma dotato della gentilezza e della sensibilità tipica delle donne, tanto da arrivare a tagliarsi i preziosi capelli e venderli pur di dare un contribuito alla causa economica della famiglia. E sì, tifavo senza pudore per la storia d’amore con Laury, ma già a quel tempo capivo razionalmente che Jo non era come le altre: lei metteva davanti a sé il proprio sogno e lo cingeva di altissime mura di protezione. Infischiandosene del giudizio altrui, la mia eroina aveva in mente di compiere il suo destino e di seguire unicamente la propria scala di valori che, purtroppo per le lettrici più romantiche e per Lawrence, per molti anni non vide incluso l’amore passionale.

Piccole donne
di Louisa May Alcott
Universale economica Feltrinelli
Traduzione di Stella Sacchini
Postfazione di Nadia Terranova
pp. 363
E dopo ventidue anni, cosa ha lasciato questa rilettura all’adulta che sono diventata? Primariamente il valore immenso della texture linguistica e culturale di cui si è servita la Alcott per la scrittura del suo romanzo. E di fronte a questa profondità lessicale, come non apprezzare la nuova traduzione di Stella Sacchini, in grado di confermare, per Piccole donne, quello che molto tempo fa sentii pronunciare a proposito dei classici: testi mutevoli che trascendono i tempi. Per questo la trentenne di oggi è in grado di apprezzare l’edizione (Universale economica Feltrinelli) di elevato pregio e valore linguistico che, per la foltissima appendice e per le circostanziate e chiare note della traduttrice, è pane per i denti per una lettrice che ha imparato a soffermarsi su tutti gli aspetti di un testo, dando un ruolo primario alla forma della letteratura. Ecco perché è facile abbandonarsi alle parole di Stella Sacchini sul suo lavoro di traduzione:
Tradurre le “erranze linguistiche” di certi personaggi, infatti, non è cosa facile: il traduttore deve muoversi su un filo sottilissimo, con la stessa cautela e concentrazione di un funambolo, perché ogni eccesso o distrazione lo precipiterebbe nel vuoto. (p. 327)
Rimanendo ai paratesti studiati in questa rilettura, immenso è stato il piacere nel leggere la postfazione di Nadia Terranova, che considero vicinissima a me quando scrive che
Questa è la vera rivoluzione portata dalle sorelle March: una femminilità che non rinuncia a nulla, non perde nulla, non è manchevole in nulla, ma può essere vissuta in pienezza, liberamente, senza sensi di inferiorità né rivendicazioni di superiorità. (p. 336)
Louisa May Alcott (Germantown, 29 novembre 1832/Boston, 6 marzo 1888)
Ci sono, infine, tutte quelle qualità autoriali e narrative passate inosservate da bambina, ma che adesso diventano le discriminanti per continuare ad amare la storia delle quattro sorelle con più forza che mai. C’è il valore della forza di volontà, vera qualità che distingue le persone; l’importanza del lavoro che bisogna compiere su di sé e i sui propri difetti per imparare a godere della vita e a non sprecare nemmeno un minuto di felicità (se c’è riuscita Miss March, chi siamo noi per non smussare gli angoli spigolosi del nostro carattere che ci costringono a ripiegarci su mille e mille sciocchezze?); la perizia narrativa con cui la Alcott mette in scena una coralità di personaggi  che «esegue un’unica melodia, ma ognuno degli esecutori reca alla composizione il contributo originale e insostituibile del proprio strumento o della propria voce» (p. 328); il fine fortemente pedagogico del testo e la consapevolezza che, se questo non era stato avvertito durante la prima lettura a 8 anni, esso sia stato ottenuto senza forzature e moralismi: indipendentemente dall’età viene spontaneo ascoltare i consigli di Miss March, una mamma più che un'autorità.

Piccole donne di Mervyn LeRoy, 1949
(con June Allyson, Janet Leigh ed Elizabeth Taylor)
Il 25 dicembre uscirà negli States la nuova trasposizione cinematografica di Piccole Donne (nel cast, giusto per mantenere l’hype a livelli folli, ci sono Emma Watson, Laura Dern e Maryl Streep) e questo è una conferma della continua attualità di un romanzo uscito per la prima volta nel 1868. E allora buon compleanno narratrice della mia infanzia e, parallelamente, della mia età adulta. Grazie per tutto quello che mi hai lasciato nella vita. E quando siederò in sala a vedere le tue nuove piccole donne forse rimpiangerò Liz Taylor con la molletta al naso, ma di certo non proverò alcuna nostalgia per la dimensione del tuo romanzo che porto, indelebile, nel cuore.


Federica Privitera