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#SpecialeSCUOLA - Conosciamo più da vicino i "nativi digitali" con Giuseppe Riva

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Nativi digitali. Crescere e apprendere
nel mondo dei nuovi media

di Giuseppe Riva
Il Mulino, 2019 (edizione aggiornata)

pp. 224
€ 14 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Quante volte la cosiddetta Generazione Y, quella dei giovani nati e cresciuti con le nuove tecnologie, sembra incomprensibile sia ai genitori sia agli insegnanti? Si sta creando un divario importante, da non sottovalutare e soprattutto da non rifiutare a priori. Nel suo libro, l'utilissimo Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, uscito nel 2019 in edizione aggiornata dal 2014, Giuseppe Riva, professore di Psicologia della comunicazione all'Università Cattolica di Milano, analizza alla luce di ricerche recentissime l'impatto che questi nuovi media stanno avendo sul cervello dei giovani, sul loro comportamento e sull'apprendimento. Alcuni dei dati sono decisamente inquietanti, così come i cambiamenti che sono ormai in corso e che trasformano i rapporti sociali e sentimentali della Generazione Y, i suoi modi di rapportarsi con gli adulti e di pensare al proprio futuro, nonché il metodo di apprendimento.
Con grande chiarezza e con dovizia di dati, mai svincolati dalla vita reale, Giuseppe Riva stimola il lettore a non arrendersi, a non considerare i giovani come qualcosa di incomprensibile, ma - anzi - a capire cosa sta accadendo per capirli.

Ringraziamo il professor Riva che si è reso disponibile a rispondere ai nostri tanti interrogativi e a inaugurare così la rubrica #SpecialeScuola di quest'anno.

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Fin dall’inizio del suo libro, sottolinea che spesso è l’incomprensione di quello che fanno i nativi digitali col cellulare in mano a generare i conflitti con i genitori e gli insegnanti. Dunque, è ora di bandire la frase “spegni o metti via quel telefono”? 
Non dobbiamo dimenticarci che i nostri figli sono diversi da noi. Loro sono “nativi digitali” perché attraverso migliaia di ore di utilizzo della tecnologia hanno imparato ad utilizzarla in maniera diretta e intuitiva. Noi siamo invece “immigrati digitali” perché la tecnologia non c’era quando siamo nati e abbiamo imparato ad usarla molto più tardi. Per questo, se non riusciamo a capire perché i nostri figli utilizzino le tecnologie in un certo modo, non è detto che sia necessariamente sbagliato. Potrebbe essere che loro vedano qualcosa che noi non siamo in grado di vedere. Per cui, prima di criticarli a priori conviene provare a farci spiegare il perché di quello che stanno facendo. Magari hanno ragione loro. 


E soprattutto, perché, ad esempio al ristorante, è sempre più frequente vedere un figlio che si isola usando il proprio telefono, mentre i genitori gli parlano? 
Quello che molti genitori non hanno capito è che per i nativi digitali i luoghi fisici hanno perso di significato. Per esempio, molti adulti si stupiscono nel vedere gruppi di adolescenti che al bar e in pizzeria non comunicano tra loro e continuano invece a consultare i social media o a spedire messaggi con il proprio cellulare. Nell’ottica dell’adulto, la «pizzeria» è un luogo al cui interno l’adolescente dovrebbe focalizzare la propria attenzione per coglierne opportunità e vincoli. Tuttavia, gli adolescenti usano i media digitali proprio per superare i confini che i luoghi gli impongono. Se sono in un locale seduto a fianco ad una persona apparentemente poco interessante, perché perdere tempo a cercare di conoscerla meglio? È più facile scrivere ai miei amici per farmi raccontare quello che stanno facendo. In altre parole, superare i confini dei luoghi è un vantaggio per l’individuo, che ha più opportunità di scelta, ma è uno svantaggio per il gruppo, perché riduce le possibilità di conoscenza e di confronto che sono alla base della nascita e dello sviluppo delle comunità e delle relazioni significative. 

Come dovrebbe porsi la scuola davanti a questo avanzamento tecnologico costante, spesso schiacciante, che vede i nativi digitali in netto vantaggio sulla media degli insegnanti?  
A partire dalla riforma Gentile del 1923 la nostra scuola si è sempre basata su una struttura pedagogica molto semplice: la lezione frontale. Il processo è quello che tutti abbiamo sperimentato: spiegazione, studio individuale attraverso la ripetizione dei contenuti trasmessi dall’insegnante e il loro approfondimento sui libri di testo, interrogazione che valuta l’alunno su quanto appreso. Questo metodo, è ancora il migliore a quasi cento anni dalla sua introduzione? Probabilmente no. Ma trovare un’alternativa non è semplice, come ha mostrato la scelta del liceo scientifico San Benedetto di Piacenza e del governo francese di vietare l’uso dei telefoni cellulari a scuola. 

Perché? 
Perché l’uso della tecnologia a scuola porta sia vantaggi che svantaggi. In particolare, la tecnologia può mettere a rischio i confini della comunità classe riducendone l’efficacia come contesto formativo. Per questo l’obiettivo non può essere quello di sostituire acriticamente libri e quaderni con la tecnologia ma, piuttosto, cercare di capire come e quando può avere senso usare la tecnologia come strumento didattico. 

Adesso che tanti nati negli anni Settanta e Ottanta sono entrati nel corpus docente, pensa che cambierà qualcosa?
Ovviamente, l’introduzione di docenti più giovani e “nativi digitali” può favorire questo processo. 

L’esperienza immersiva nella tecnologia da parte dei nativi digitali ha avuto e ha giorno dopo giorno conseguenze sul livello di attenzione e sul tipo di memoria che mettono in atto. Scrive che la memoria dichiarativa (quella legata alle conoscenze, alle nozioni) è in calo, mentre cresce la capacità di essere multitasking. Pensa che questa compensazione possa bastare o siamo davanti a un allarme? 
In effetti i dati disponibili sono molto chiari: in quindici anni l’attenzione media durante la fruizione dei contenuti digitali è diminuita del 50%, passando da 12 secondi a 8 secondi per ogni contenuto. Che cosa implica questa riduzione dell’attenzione legata all’uso della tecnologia? Da una parte, un recente studio ha evidenziato l’esistenza di un legame significativo tra la presenza di disturbi dell’attenzione e l'uso eccessivo di Internet. In linea con questo dato, i disturbi dell’attenzione nei nativi digitali sono associati anche al tempo passato a giocare ai videogiochi e i nativi digitali con un disturbo dell’attenzione hanno più probabilità rispetto ai loro coetanei di utilizzare eccessivamente i social media. Dall’altra la riduzione dell’attenzione ha un impatto sulla capacità del nativo digitale di distinguere le informazioni online. In particolare, dato il livello di attenzione e di analisi attualmente dedicato ai contenuti dei social, il nativo digitale non è in grado di discriminare efficacemente tra contenuti di alta e bassa qualità, tra notizie vere e false con il rischio di cadere vittima delle fake news

In una ricerca da lei citata, si legge che il 57% dei nativi digitali non ritiene la privacy un diritto da difendere, ma anzi una minaccia alla conoscenza. A suo parere a cosa può portare questa tendenza? 
Fino alla nascita dei social network, le reti sociali che caratterizzavano la nostra vita quotidiana e quelle del mondo digitale erano chiaramente distinte. Con la nascita dei social network questa separazione cade, generando un nuovo spazio sociale, che unisce in maniera irreversibile online e offline. In altre parole, vedere un video su Facebook o dare un “mi piace” alla foto del mio amico non sono più eventi in un “mondo online” che esiste indipendentemente da quello che sono e faccio nel “mondo offline”, quello “reale”. Ma quello che faccio nel mondo online ha un’influenza diretta sul modo offline e viceversa, indipendentemente dal fatto che io lo voglia o meno. Inoltre, la maggior parte dei contenuti creati nei social media rimangono online, creando una specie di “personalità digitale”, una specie di Doppelgänger (termine mutuato dal tedesco che indica un “doppio” o un “sosia” di una persona, spesso maligna) che rimane visibile anche se io sono cambiato e in quei contenuti non mi riconosco più. Il rischio principale è quello di fare nei social media delle cose di cui anni dopo potrebbero pentirsi

Ad esempio?
Uno dei contesti in cui è più visibile questo effetto è la ricerca di lavoro. In una ricerca fatta da Adecco è emerso che un selezionatore su tre ha escluso potenziali candidati in seguito alla scoperta di contenuti o foto improprie sui propri profili nei social media. 

Sempre a proposito di cose di cui ci si può pentire in futuro, il fenomeno di sexting è costante e al posto di messaggi testuali sono sempre più diffusi immagini e video, girati spesso da ragazzini inesperti, a caccia di conferme o, come lei sottolinea, di favori (ricariche del cellulare, ad esempio). Bisogna accettarlo come una moda di questi anni Duemila? Come agirebbe da genitore? 
Molto spesso i genitori si dimenticano che la disponibilità di un cellulare personale è un evento che cambia radicalmente i processi cognitivi ed emotivi, la costruzione dell'identità sociale, lo sviluppo e la gestione delle relazioni dei nostri figli. In particolare quando il cellulare è anche uno smartphone e consente non solo di chiamare genitori e parenti ma anche di accedere a una fotocamera digitale, alle App, ad Internet e ai social network. Per questo, il modo migliore per evitare problemi è quello di affiancare l'uso della tecnologia ad una attività formativa che aiuti l'adolescente a capire rischi e opportunità. Ma chi ha la responsabilità di questa attività di formazione? Le famiglie? La scuola? Non avendo una risposta a questa domanda il risultato finale è sempre lo stesso. Il passaggio del cellulare al figlio nella quasi totalità dei casi passa attraverso una mancanza di indicazioni e/o spiegazioni su cosa sia possibile fare con il cellulare e quali siano i rischi ai quali il bambino/ragazzo può andare incontro. E sono poi i nostri figli a pagare personalmente per i problemi e gli errori che gli possono capitare. Probabilmente servirebbe un patentino come quello per il motorino: se un quattordicenne non ha problemi a studiare le regole stradali per prendere il patentino che gli serve per guidare un ciclomotore, lo stesso dovrebbe valere per il tredicenne (l’età minima per entrare sui social è 13 anni, 16 per WhatsApp) che vuole entrare in un social network. Tuttavia, in attesa che il patentino arrivi superando problemi legislativi e l'influenza delle lobby, c'è un'altra possibilità che dipende solo dalla nostra volontà: il contratto. Questo significa che daremo ai nostri figli il tanto desiderato smartphone solo dopo la loro firma su un contratto che indichi chiaramente quelle che sono le regole da seguire per poterlo usare. Per aiutare i genitori in questo processo ho preparato TRE diversi contratti: per uno Smartphone senza Internet, per uno Smartphone con Internet ma senza Social e per uno Smartphone con Internet e i Social. 

Ce ne può parlare?
I contratti, che possono essere scaricati liberamente e dal sito del volume Nativi Digitali (www.natividigitali.com), sono accompagnati da una serie di schede di approfondimento sia per i ragazzi che per i genitori, da leggere prima della firma. Se li scarichiamo e li usiamo riusciremo a rendere i nostri figli più consapevoli dei rischi e delle opportunità della rete. 

All’interno dei social media non esistono legami deboli o forti: si dà l’“amicizia”. Questo è un vantaggio o uno svantaggio per un adolescente? 
Ci sono vantaggi e svantaggi. Se i social media aumentano la quantità e la frequenza delle interazioni sociali, al punto che la generazione attuale è quella che in assoluto ha più «amici» nella storia dell’uomo, allo stesso tempo possono ridurre la qualità delle relazioni, rendendo il nativo digitale più solo e depresso. 

Perché i giovani preferiscono la comunicazione digitale a quella faccia-a-faccia? Quali pro e quali conto comporta questa scelta? 
La risposta è apparentemente banale: perché è meno problematica e più facile da gestire. Per esempio, sempre più adolescenti preferiscono i messaggi vocali asincroni, che permettono di presentare le proprie richieste e/o posizioni senza un confronto immediato con l’altro. A differenza della telefonata classica sincrona, in cui le proprie richieste e posizioni richiedono un immediato confronto con i bisogni e le intenzioni dell’altro. In pratica, la comunicazione digitale è più facile perché è sempre strategica e studiata: ho bisogno di pensare attentamente a quello che scrivo e ai contenuti che condivido perché tutto quello che entra nel mondo digitale non scompare più e un giorno i miei “amici” potrebbero usarlo contro di me. Ovviamente questo processo rende più difficile le relazioni vere e rende il nativo digitale più solo

La frequenza di casi di adolescenti in preda alla solitudine e alla depressione è in crescita, fino al caso limite degli hikikomori (adolescenti che si ritirano volontariamente per giorni, mesi o anni nelle loro stanze, senza interazioni col mondo esterno), secondo una ricerca da lei citata. Per quali ragioni? 
Il problema di base è il confronto sociale. Quando ci confrontiamo con gli altri profili social, il rischio è quello di sentirsi sempre inadeguati: siamo troppo brutti, troppo poco popolari, non abbiamo niente da dire di intelligente. Il risultato più drammatico di questo processo di confronto sociale in cui il nativo digitale si sente perdente è il fenomeno del «ritiro sociale» (chiamato anche Hikikomori, dalla parola giapponese «stare in disparte»): adolescenti che sentendosi inadeguati si rinchiudono nella loro stanza per lunghi periodi senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. Per fortuna gli adolescenti che decidono di attuare una scelta così radicale – circa 250.000 in Giappone – da noi sono ancora pochi. Molto più comune è la scelta di disimpegnarsi nelle attività sociali, professionali e formative – si smette di studiare, non si creano relazioni stabili, non si pianifica il proprio futuro - con una mancanza di responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri. 

Terminiamo pensando ai più piccoli “nativi digitali”, i baby digitali: è bene che entrino fin da subito in contatto con le tecnologie touch? Perché? 
Dalla nascita del computer fino alla fine del primo decennio del ventunesimo secolo l’utilizzo delle tecnologie è stato sempre legato all’utilizzo di un linguaggio. A cambiare le cose sono state le nuove possibilità di interazione offerte da smartphone e tablet che hanno permesso ai piccolissimi di interagire con successo con la tecnologia anche prima di imparare a parlare. Appena i genitori o i figli se ne accorgono, incominciano subito a farlo. Di solito il primo contatto con il dispositivo mobile è per vedere video. In pratica lo smartphone o il tablet diventano un surrogato mobile della televisione - con il vantaggio di poter scegliere che cosa mostrare quando si vuole - che spesso consente al genitore di gestire situazioni di emergenza, come farsi una doccia, fare un viaggio o far mangiare l’altro figlio. Il problema è che ai nostri figli interagire con lo smartphone o il tablet piace molto, in alcuni casi anche troppo: togliere il dispositivo touch al bambino può generare lunghi pianti e discussioni. Per cui due domande critiche da porsi sono: A che età far avvicinare il bambino alla tecnologia? E come? Secondo l’Accademia delle Scienze francese utilizzare tecnologie touch per il gioco interattivo può essere positivo anche per i bambini più piccoli – non prima dei diciotto mesi – a due condizioni: 
1) se si usano App esplorative/interattive in grado di facilitare la conoscenza del mondo e di sé stessi. Per esempio le App che al tocco del bambino producono suoni o immagini: il bambino interagisce con l’oggetto producendo un effetto sensoriale, che rappresenta lo specifico obiettivo da raggiungere. Queste App consentono la realizzazione di veri e propri esperimenti pratici, con cui il bambino comprende gli effetti delle variazioni di un’azione. 
2) se queste App non vengono fruite in solitudine dal bambino ma in gruppo o sotto la guida di un genitore.

Grazie per aver partecipato alla nostra rubrica! 
Nativi digitali vi aspetta in libreria

Intervista a cura di GMGhioni




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