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"La vita davanti a sé": storia d'amore e integrazione attraverso gli occhi di un bambino

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La vita davanti a sé 
di Romain Gary, pseudonimo di Romain Kacew 
Neri Pozza, 2014

Prima edizione in lingua originale: 1975, La Vie devant soi

Traduzione di Giovanni Bagliolo

pp. 214
€ 10 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)


«Certe volte avevo paura perché avevo ancora molta vita davanti a me, e che promessa potevo mai fare a me stesso, io, povero uomo, se è Dio che tiene in mano la gomma da cancellare? Adesso però sono tranquillo. Non dimenticherò Djamila. Mi resta poco tempo, morirò prima». (p. 8)
La vita davanti a sé è uno di quei libri nei quali mi sono imbattuta per caso, consigliata da una cara amica bibliofila quanto e più di me. Il primo approccio è stato con l'audiolibro letto e interpretato magnificamente dall'attore Marco D'Amore, divenuto famoso con la serie televisiva Gomorra, e subito dopo non ho potuto fare a meno di immergermi anche nella carta stampata.
La storia prende avvio nel 1970 nel quartiere multietnico di Belleville e ha per protagonista e voce narrante un bambino arabo di dieci anni (almeno inizialmente) di nome Mohammed, ma conosciuto da tutti come Momò, e la sua anziana tutrice, Madame Rosa, una ex prostituta ebrea di novantacinque chili reduce dal campo di Auschwitz.
Attorno a questa stramba famiglia alla quale si aggiungono anche altri bambini figli di prostitute, che hanno capito che non sono i legami di sangue a cementare i rapporti, ma che è l'amore a unire gli uni agli altri, ruota un intero universo di personaggi dai tratti tragicomici: solo per citarne alcuni si va dal Signor Hamil, venditore ambulante di tappeti al quale Momò si rivolge per avere saggi consigli, al nigeriano Monsieur N'Da Amédée, protettore di prostitute analfabeta che si fa aiutare da Madame Rosa a scrivere lettere da inviare ai suoi cari in Africa nelle quali millanta agi e ricchezze, da Madame Lola, trans senegalese ex pugile tenero e amorevole con i bambini e con l'anziana ebrea, al Dottor Katz, medico caritatevole e buono.

«Non c'è bisogno di motivi per aver paura, Momò». Questa non me la sono mai dimenticata, perché è la cosa più vera che ho mai sentito dire. (p. 48)
Scritto con il linguaggio ingenuo e semplice di un bambino che mi ha ricordato Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, la storia dell'autore meriterebbe anch'essa di essere raccontata in un romanzo: il vero nome di Romain Gary, infatti, era Romain Kacew, ma pubblicò La vita davanti a sé nel 1975 con lo pseudonimo di Émile Ajar, riuscendo a vincere per la seconda volta (unico caso sinora) il prestigioso Premio Goncourt, dopo esserselo già aggiudicato nel 1956 con Le radici del cielo, riuscendo nell'impresa grazie ad un parente, Paul Pavlovitch, che accettò di attribuirsi l'identità dello pseudonimo.
Nel 1980, poi, due giorni prima di uccidersi, l'ebreo lituano dato oramai per finito dai critici, scrisse  il suo testamento letterario, Vita e morte di Emile Ajar, lo inviò al suo editore e chiese di renderlo pubblico previa intesa col figlio Diego Gary solo dopo la sua morte. Qui scrisse le motivazioni che lo avevano spinto a scrivere molte delle sue opere sotto vari pseudonimi:
Ero stanco di essere soltanto me stesso. Stanco dell'immagine di Romain Gary che mi avevano appiccicato addosso una volta per tutte, da trent'anni,
rivelando un animo fortemente pirandelliano.
Gli incubi sono i sogni di quando uno invecchia. (p. 52)
Quale che fosse la realtà, la storia del dolce ma disincantato Momò e della anziana e malata Madame Rosa pare davvero toccata dalla grazia, come ha scritto il giornalista Stenio Solinas: attraverso gli occhi ingenui ma intelligenti di un bambino arabo che trascorre la sua esistenza accudito da un'anziana ebrea, il lettore assiste a un bell'esempio di integrazione culturale e religiosa che ha visto la luce vent'anni prima che Daniel Pennac scrivesse il ciclo di Malaussène.

Quando il Dottor Katz afferma che Momò è probabilmente l'unico arabo sulla faccia della terra in grado di parlare perfettamente la lingua yiddish, sentiamo spuntare un sorriso sulle nostre labbra e capiamo che è proprio l'amore che questo bambino prova per l'anziana ebrea a fargliela percepire come bella e amorevole. Se a Madame Rosa nonostante le malattie e gli affanni basta guardare una foto di Hitler per rasserenarsi e pensare che tutto potrebbe andare peggio, rimaniamo anche incredibilmente sorpresi dalla dolcezza di Momò che non riesce a capire perché la sua mamma adottiva, ormai troppo malata per tollerare ancora la vita, non possa essere "abortita" come si fa con gli animali con un atto di estrema pietà:
La gente è sempre molto più gentile coi cani che con le persone umane che non si possono far morire senza sofferenza. (p. 88)
I due pseudonimi di Kacew, Gary e Ajar, significano rispettivamente "brucio" e "brace", e la sensazione che si ha leggendo La vita davanti a sé è proprio quella di trovarsi di fronte un autore che ha amato in un modo tanto ardente la vita da rimanerne indelebilmente scottato e da giungere alla conclusione che ormai non poteva sopportarla ancora, sparandosi un colpo di pistola nella sua casa si rue du Bac a Parigi dopo aver indossato una vestaglia rossa per non impressionare troppo chi avrebbe ritrovato il suo corpo ricoperto dal sangue.

La vita davanti a sé è uno di quei romanzi di formazione (dal quale è stato tratto anche una pellicola cinematografica che nel 1978 si è aggiudicata il premio Oscar per il miglior film straniero) capace di smuovere le coscienze dei lettori di ogni età, ricordando loro il messaggio più bello che un'opera letteraria (e non solo) può lasciarci: non si può vivere una vita senza amore.
Madame Rosa dice che la vita può essere molto bella ma che non è stata ancora veramente scoperta e che intanto bisogna pur vivere. (p. 98)

Ilaria Pocaforza