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#Criticalibera. La febbre del calcio: chi ne soffre e chi ne è immune (secondo tempo)

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Riprendiamo con il botta e risposta tra Marco Caneschi e Giulia Pretta che disquisiscono sul calcio dalle due parti opposte della barricata: chi è tifoso e chi non lo è. Giulia sta iniziando a capire e Marco, in una dichiarazione post incontro, pare soddisfatto del risultato ottenuto. 

Giulia: Mi sono riposata e ho studiato. Mi hai lasciato in sospeso con l'aneddoto sulle maglie della Juventus.
Marco: Ci avrai pensato senza requie tutto il week end. Ebbene, le maglie bianconere della Juventus originano dall’Inghilterra, in particolare dalla seconda squadra di Nottingham, il Notts County. Il club professionistico più antico del mondo. Vincitore di una Coppa d’Inghilterra nel 1894. Nel 1903 la Juventus era alla ricerca di divise… diciamo più adatte al calcio visto che fino a quel momento i giocatori scendevano in campo in camicia rosa e cravattino nero. Ma sai com’è, siamo l’unica squadra al mondo fondata in un liceo classico, te lo ricordo come elemento distintivo. Tienilo a mente. Così un suo socio, si chiamava Gordon Thomas Savage, amico di un tifoso dei Notts, chiese a quest’ultimo se aveva delle uniformi da prestargli. Of course, rispose il tale. Erano a strisce bianconere, appunto. E ancora oggi i tifosi del Notts County intonano allo stadio, in virtù di questa amicizia cromatica, il coro “It’s just like watching Juve” quando la loro squadra offre una grande prestazione.

Giulia: Ho letto in Hornby e rileggo anche in te in queste righe l’uso di una terminologia molto passionale: Hornby si innamora del calcio come potrebbe fare con una donna. Per il calcio è pronto a sacrificare praticamente tutto: racconta di come sia andato a un incontro con una caviglia slogata, di come i suoi amici siano abituati a vedergli saltare eventi e festeggiamenti se per caso sono in concomitanza con una partita importante. Non senza una certa preoccupazione, l’autore ammette che se la compagna dovesse stare male o, in estremo, dovesse essere in travaglio in ospedale durante un match lui non saprebbe proprio verso chi dirigere le proprie attenzioni: il suo club o i suoi affetti? Oltre ad essere pezzi di un’ironia garbata a cui Hornby ormai ha abituato i suoi lettori, sono uno squarcio nella mentalità del tifoso che per me ha dell’incredibile. Mi sai spiegare se questo atteggiamento esiste anche fuori da quella che penso (o forse spero) essere pura esagerazione a fini narrativi?

Marco: I dettagli con cui Hornby arricchisce il libro mi paiono sintomatici di una smania pallonara incontrollabile. Il libro in fondo non è una fiction di tipo drammaturgico ma di genere memoir. E i vari aneddoti sono talmente circostanziati che denotano una chiara direzione da prendere dinanzi a scelte drammatiche. Oltre alla finale della coppa dei campioni in corrispondenza della rottura delle acque, mi pare che Nick non abbia dubbi tra le elezioni vinte dalla Thatcher e l’Arsenal che ha un’annata meravigliosa. Lo sai cos’è? La squadra del cuore ci fa davvero sopportare ogni cosa. È un filtro magico che viene disperso sopra la tua testa fin da piccolo e resta sopra a proteggerti. Diciamo che Nick conosce bene come la tecnica con cui riportare quella smania, non starei a disquisire sulla sua veridicità o forzatura anche perché le sue stesse domande me le sono poste pure io.

Giulia: E che risposte ti sei dato?

Marco: C’è bisogno di chiederlo?

Giulia: Ormai hai risvegliato l’antropologa latente in me. Un altro passaggio mi ha incuriosito. Te lo cito alla lettera “Ho provato con calzini fortunati e camicie fortunate, e cappelli fortunati e amici fortunati e ho cercato di escluderne altri che ho l’impressione che portino solo guai alla squadra”. Esiste qualcuno di più scaramantico di un tifoso incallito? E soprattutto questo tifoso lo sa che niente di tutto questo ha effetto sui rendimenti in campo? Qui si sprofonda nel mistico, nello sciamanico, nel magico.

Marco: Ma che scherzi? Io ho un abbigliamento specifico per certe partite, quando viene mio babbo a guardare la Juve a casa mia, io devo stare in un punto del divano e lui in un altro. Perché come per Nick il colpevole di tutto è mio padre. Ma lo amerò per sempre per questo. Poi sì, come si dice, mi ha fatto studiare eccetera eccetera ma la prima volta allo stadio, il 24 aprile 1977, Perugia-Juventus, avevo 7 anni e mezzo, beh…
Comunque in effetti siamo dei malati cronici, da analizzare a uno a uno, tipo una ciste asportata da un dermatologo. Siamo casi psichiatrici perché è evidente che fare colazione con una tazza piuttosto che un’altra il giorno che gioca la tua squadra non influisce. Eppure… in cuor nostro, pensiamo a stronzate tipo karma, quella roba là, che abbiamo imparato a conoscere quando negli anni Novanta sembrava che dovessimo diventare tutti buddisti. E che l’influsso delle nostre azioni, dalla cucina casa, libri nell’aria e raggiunga i muscoli dei beniamini.

Giulia: Fino a ora abbiamo fatto gli zuzzurelloni, ma vorrei toccare un tasto un po’ più serio. Hornby vive il calcio, oltre che come un parallelo con la sua vita, anche come un filtro di interpretazione sociale. “Buona parte della mia conoscenza dei luoghi in Gran Bretagna e Europa non deriva dalla scuola, ma dalle partite fuori casa o dalle pagine sportive, e il fenomeno degli hooligan mi ha fornito sia un certo gusto per la sociologia che un certo grado di esperienza sul campo. Ho appreso il valore di investire tempo ed emozioni in cose che non sono io a controllare, e di appartenere a una comunità della quale condivido le aspirazioni in maniera totale e acritica. E la prima volta che andai allo stadio di Selhurst Park con il mio amico Rospo vidi un morto, il mio primo e ancora unico morto, e imparai qualcosa, be’, sulla vita.”. Il mondo calcistico ha le sue pagine buie: leggendo il romanzo ho scoperto della strage dell’Heysel di cui non avevo mai sentito parlare.

Marco: È il ricordo drammatico della storia della Juve legato al Liverpool di cui ti ho accennato sopra. Una vicenda di cui potrei parlarti per ore: la mia città ha pagato un prezzo altissimo a Bruxelles con due morti, una ragazza di 17 anni e un medico di 30 che si era messo al sicuro e tornò indietro salvando la vita a un bambino ma finendo per essere travolto in prima persona. Il calcio inglese ha conosciuto il fenomeno degli hooligan, ma in quegli anni la società inglese aveva un tasso di violenza e… nervosismo molto accentuati. Le politiche della Thatcher non furono uno scherzo, la deindustrializzazione di interi comparti, come quello dell’acciaio a Sheffield, furono botte impressionanti. È chiaro che in un periodo di crisi e di disoccupazione dilagante le tensioni sono ovunque, nelle strade e negli stadi. Ora, non è che dobbiamo prendere il calcio e farne la metafora di una nazione, ma il razzismo dentro gli stadi italiani è talmente diffuso che non possiamo sorprenderci se quello di colore sul gommone non viene fatto sbarcare sulle nostre coste. Se tu ascoltassi una telecronaca, inoltre, ti accorgeresti di quanti neologismi stranieri sono entrati nel linguaggio del calcio. Non è successo lo stesso nella politica e nel giornalismo?

Giulia: Dai, ora mi sento preparata e ho preso appunti. Fammi qualche domanda sul calcio britannico.

Marco: Allora: qual è l’aristocrazia, diciamo la Camera dei Lords?

Giulia: Manchester United…

Marco: Brava… vai avanti.

Giulia: Non essere condiscendente! Llli… ver…

Marco: Liverpool, certo… 5 coppe dei campioni, il massimo trofeo europeo per club. Oggi si chiama Champions League e forse questo nome ti è arrivato alle orecchie. Oltre a 18 campionati e 7 coppe inglesi.

Giulia: E chiaramente l’Arsenal.

Marco: Sì, il nostro Hornby è caduto in mani buone. Ma dell’aristocrazia del calcio britannico fa parte di diritto anche la seconda squadra di Liverpool, l’Everton perché detiene il record di partecipazioni al campionato. Nessuno come loro, con 116 volte nella massima serie. E 9 campionati vinti e 5 coppe inglesi. Davvero niente male per essere la “seconda squadra” di una città, costretta a convivere con una prima così ingombrante. La bellezza del calcio inglese è che se guardi l’albo d’oro di campionato e coppa, ti accorgi che la mobilità… sociale, ovvero la possibilità per squadre meno blasonate di vincere, esiste. Forse avrai sentito parlare, ma ci spero poco, del Leicester, allenato peraltro da un italiano, Claudio Ranieri, e della sua favola del 2016. Ma via via hanno meritatamente occupato le cronache squadre capaci, per un periodo, di dominare in patria e addirittura in Europa. Il Nottingham Forrest, il Leeds, legato a un fatto fondamentale della mia esistenza che spiego in un libro, e avevo solo 5 anni, l’Aston Villa, la squadra di Birmingham, il Tottenham, un’altra delle tantissime squadre di Londra, con molto seguito fra la comunità ebraica. Ecco, a tutte queste porto rispetto, mentre mi stanno sulle palle le nuove arrivate, perché anche nel calcio ci sono i parvenu e sgomitano fastidiosamente. Parlo di Chelsea, i Blues, e Manchester City, i Citizens. La prima è di Londra, la seconda di Manchester. Adesso fanno incetta di titoli, in patria, grazie alle iniezioni petrolifere ed energetiche. La prima è di proprietà di un oligarca russo, la seconda degli sceicchi del golfo. E poi il calcio non è la cartina di tornasole di certe evoluzioni. 

Marco Caneschi e Giulia Pretta