in

#Criticalibera - La febbre del calcio: chi ne soffre e chi ne è immune (primo tempo)

- -

La Redazione di Criticaletteraria è sconvolta da un'epidemia di febbre. C'è chi ne sta soffrendo tanto e chi invece ne è immune. Non parliamo dei malanni di stagione (anche se quelli non mancano), ma della febbre calcistista. C'è chi è tifoso sfegatato e chi invece non ha mai capito nulla né dello sport né di questa divorante passione. Prendendo spunto dal romanzo di Nick Hornby "Febbre a 90°", Marco Caneschi (tifoso) cerca di spiegare a Giulia Pretta (non tifosa) cosa si cela dietro questo entusiasmo per il calcio. E si prendono ben due puntate per farlo: una oggi e una lunedì. Si sa come vanno questi posticipi di campionato.


Giulia: L’attento antropologo può osservare un interessante fenomeno che coinvolge una larga fetta di popolazione a qualunque latitudine e longitudine: uomini, donne e bambini, a volte da soli, ma il più delle volte concentrati in luoghi di aggregazione sociale quali i bar, si infervorano davanti a uno schermo luminoso che rimanda loro le immagini di 22 uomini, divisi in gruppi da 11 e ogni gruppo contrassegnato da una maglia di colore diverso, che corrono su e giù per un campo d’erba e tentano di spedire un pallone nella porta del proprio avversario. E i gruppi di uomini, donne e bambini davanti allo schermo si infervorano, si agitano, urlano incoraggiamenti, tirano vigorose imprecazioni. L’antropologo preparato sa che quella è solo una piccola parte del pubblico della manifestazione sportiva calcistica e sa che esiste un’ampia fetta di “tifosi” (così vengono chiamati quelli che si infervorano, ma che, di fatto, non contribuiscono allo svolgimento della partita) che preferisce riunirsi proprio nel luogo in cui la partita di calcio si svolge: lo stadio. In questo modo, oltre che infervorarsi con i giocatori, può anche sfogare il proprio senso di frustrazione o di esultanza nei confronti dei tifosi della squadra avversaria.
Ogni volta che osservo gruppi di tifosi o ascolto i loro racconti sulla visione di questo o quell’incontro, dei loro riti scaramantici, delle loro rinunce fatte in nome di questo sport che un famoso ministro inglese definiva come più appassionante della vittoria o della sconfitta in una guerra, mi sento come un’antropologa che osserva rituali al di fuori della propria cultura. Cresciuta in una famiglia completamene disinteressata del calcio, non sono mai andata oltre il sapere che rossoneri e bianconeri sono nemici giurati e che quando rossoneri e neroazzurri si incontrano la partita viene chiamata “derby”. Come buon proposito sono quindi andata in cerca di un romanzo che potesse, almeno in parte, sollevare il velo sul mistero che avvolge questo sport e ho deciso di dare questa possibilità allo scrittore britannico Nick Hornby e al suo romanzo Febbre a 90. L’autore racconta la sua biografia strettamente legata alla divorante passione calcistica per il club dell’Arsenal. Su questo punto mi sono dovuta fermare a chiedere spiegazioni al corrispondente a Hornby più vicino che potessi trovare: Marco Caneschi che da mesi prova a insegnarmi qualcosa di più sul mondo del calcio. Marco, ma cos’ha l’Arsenal di così speciale?

Marco: Beh, l’Arsenal è una delle società più gloriose del calcio britannico, anche se per parte del libro non se la passa tanto bene. Come sai, anzi… non sai, il calcio è nato proprio in Inghilterra dove dal 1871 si gioca la più antica competizione ufficiale al mondo. No, non è il campionato, non trarre le
conclusioni affrettate tipiche di chi ha da recuperare il tempo perduto. Un mucchio di tempo. Sto parlando della coppa d’Inghilterra. Competizione che ancora oggi equivale per prestigio al campionato. E questa è una caratteristica solo inglese. Nelle altre nazioni europee, vincere lo scudetto vale centomila volte di più della coppa nazionale. Sì, hai capito bene, l’Inghilterra anche nel calcio, come ai distributori con i galloni o nelle strade con le miglia, fai un po’ come cavolo le pare. Come dici? Ah, sì: come in Europa con la Brexit. Giusto. A te studio.

Giulia: E infatti il romanzo parte, come ogni biografia che si rispetti, dall’infanzia di Hornby che nel 1968 vive il traumatico divorzio dei propri genitori. Il calcio diventa il collante, l’attività da fare nelle giornate che gli spettano da passare con il padre. Qui comincia quello che lui definisce un amore acritico e inspiegabile per questo sport che si intreccia inestricabilmente alla sua vita. Le partite sono un rito di condivisione virile che sarà prima con il padre, poi con il fratellastro e con vari compagni d’arme lungo tutta la sua vita.

Marco: Tu che parli di antropologia non ti sarà ignoto che tutti i popoli della Terra, ma proprio tutti, lungo i millenni, sono stati accomunati da una cosa. A dire il vero piuttosto macabra. I sacrifici. Dove e con cosa comincia la cultura occidentale? L’Iliade con cosa ti mette a confronto, subito? Molti popoli, anche piuttosto evoluti da certi punti di vista, tipo i celti, gli aztechi, erano sostanzialmente dei cannibali. Oggi è chiaro che non abbiamo più altari dove aprire petti umani ma non è che il sacrificio sia scomparso. Ha perso i suoi connotati oggettivi, sociali, per privilegiare una dimensione individuale. E il tifo per una squadra di calcio è la quadratura del cerchio. Credo che ci torneremo su questo punto.

Giulia: Comunque ero attenta durante la tua spiegazione di prima sulla coppa. Ma non abbiamo anche noi la coppa Italia? È diversa da quella from the UK?

Marco: Lo sai perché la coppa d’Inghilterra è unica? Perché è aperta a tutti. Dai dilettanti buoni per partite tra scapoli e ammogliati al Manchester United, la società che fattura di più nel pianeta.

Giulia: Nel pianeta calcio?

Marco: Come sei sprovveduta. Nel pianeta Terra! Vi si affrontano più di 750 squadre da agosto al giugno dell’anno dopo, con turni eliminatori a ripetizione. Dove le squadre inferiori sognano, a volte riuscendoci, l’impresa e il calcio ritorna a essere perfino romantico. Gli accoppiamenti sono completamente casuali e non ci sono teste di serie. Chi perde, puoi chiamarti come vuoi, va a casa. Da vetusti e sperduti campi di provincia si giunge alla maestosa cornice dello stadio della finale: Wembley. Con una fantastica capacità di abbracciare la passione popolare, a ogni latitudine. Almeno d’oltremanica. E se uno guarda l’albo d’oro… scopre che l’hanno vinta due volte perfino gli studenti dell’Eton College.

Giulia: Quello da dove sono usciti il Duca di Wellington, George Orwell…

Marco:… e Ian Fleming, sì. E più recentemente i principini futuri re. Sempre che la vegliarda, come dire… si decida. E arriviamo all’Arsenal: è la squadra che ne ha vinte di più, 13. Contro le 12 del Manchester United. Ti ripasso la linea.

Giulia: Se la Regina leggesse la tua frase sopra si farebbe una bella risata prima di uscire a caccia con i suoi corgi.
Tutti i capitoli del romanzo (e della vita) di Hornby sono legati e cominciano con una determinata partita: Arsenal-West Ham, Swindon Town-Arsenal… l’autore ha di tutti gli incontri dei ricordi vividissimi e precisi: era seduto o in piedi quando Tizio segnò contro Caio? (lo sto facendo apposta per farti arrabbiare) Il tifoso davanti a lui quando l’arbitro fischiò il rigore aveva la pelata o il cappello? Alcuni sono club che persino io ho sentito nominare, altri completamene sconosciuti, ma ora con la tua spiegazione sulla coppa mi è più chiaro il perché alcuni siano fuori dalle conoscenze del pubblico. Dai, rendimi più edotta e citami qualche squadra che non posso non conoscere.

Marco: Dunque, abbiamo detto il Manchester United e l’Arsenal che hanno nel palmares, accanto alle coppe d’Inghilterra, anche 20 e 13 campionati. Oltre che trofei internazionali, a dire il vero soprattutto lo United. Ma la più grande di tutte è di sicuro il Liverpool. Mi duole dirlo da juventino perché il Liverpool è legato a un ricordo drammatico della storia della Juventus, ma… i Reds sono i Reds e quando prima dell’inizio della partita allo stadio di Anfield tutti cantano, ma parlo proprio di tutti, di 55.000 persone, “You’ll never walk alone”, non ci sono cazzi. Hai i brividi meglio di una tempesta ormonale. Reds è uno dei tanti nomi grazie ai quali noi appassionati distinguiamo le squadre inglesi e di conseguenza i loro tifosi. Ecco un piccolo campionario: i Red Devils sono quelli del Manchester United, poi ci sono i Gunners, i cannoni, e sono i nostri londinesi dell’Arsenal, i Toffies sono l’Everton, come le caramelle, esatto, gli Spurs, gli speroni, sono il Tottenham, gli Hammers, i martelli, sono il West Ham, la squadra più importante dell’est di Londra, sì del punto cardinale opposto, ormai lo abbiamo capito che gli inglesi fanno come pare a loro, i Cottagers sono il Fulham e siamo in una delle zone più ricche della capitale inglese, i Magpies, le gazze, sono il Newcastle, i Rovers, i corsari, sono il Blackburn e se vogliamo tornare a Londra, per chiudere la piccola carrellata, è giusto ricordare anche due squadre minori ma che hanno un seguito popolare straordinario: il Crystal Palace, gli Eagles, e siamo a sud, e il Millwall, in origine il club dei docks di Londra e nonostante una storia vissuta principalmente tra la seconda e la terza divisione, beh… se vuoi odiare sul serio il West Ham devi tifare i Dockers. Ti vorrei anche raccontare un aneddoto sulle maglie bianconere della Juventus, ma penso di averti dato abbastanza informazioni per questo giro. Resisti fino lunedì?

Giulia: Terrò a bada la curiosità. Fino a lunedì penso proprio che studierò e rileggerò bene tutto quello che mi hai detto. 

Marco Caneschi e Giulia Pretta