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Quando i sentimenti «si comunicano attraverso i gesti»: di scrittura, radici, innocenza nell'intervista esclusiva a Roberto Camurri

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A sette anni dall'esordio e con quattro libri pubblicati (tutti da NN editore e tutti presenti sul nostro sito) possiamo dire con una certa sicurezza che Roberto Camurri ha trovato la sua dimensione ideale e una voce autoriale ben riconoscibile. Da un paio di mesi è tornato in libreria con Splendeva l'innocenza, un romanzo che si muove su due piani temporali e, abbandonata - anche se non del tutto - Fabbrico, porta il lettore tra le strade di Monterosso, piccolo borgo marinaro del levante ligure e la Genova del G8. Una storia di sentimenti difficili da esprimere a parole, di amicizia, rapporti umani, di un territorio fragile, innocenza e passaggio alla vita adulta. Ne abbiamo parlato con l'autore, durante il Salone del libro di Torino. 

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Splendeva l’innocenza è il tuo quarto libro (faccio sempre fatica a dire romanzo nel tuo caso, perché altre tue narrazioni sono a mio avviso più vicine al racconto…). Hai una scrittura assolutamente riconoscibile, una voce autoriale potente, tesissima. Hai trovato la tua dimensione letteraria, anche se ogni libro è una pagina nuova. Come mantieni l’equilibrio tra questa voce autoriale, l’occorrenza di certe tematiche e spunti, e non farti soffocare da quella voce e da quei confini?

Ti ringrazio per questo perché quando mi dicono che ho una voce riconoscibile è il miglior complimento che possano farmi, perché alla fine credo che le storie più o meno siano state già tutte raccontate e quello che in realtà rende uno scrittore ancora interessante da leggere è il punto di vista da cui guarda il mondo e la sua capacità di raccontare questo punto di vista. Quindi quando mi dicono che ho un punto di vista mio sono molto contento, perché è come se quello che penso per gli altri venga rispecchiato in me e questo mi rende felice. Sono uno che quando inizia a scrivere non pensa mai a come sarà e come verrà letto il il libro finito, perché altrimenti inizio a farmi un sacco di domande, inizio a mettermi un sacco di sovrastrutture che credo soffocherebbero il mio modo di raccontare e quindi parto a raccontare senza pormi troppe questioni. Poi magari ci lavoro dopo però la prima stesura è proprio così, vado avanti con quello che mi viene.

Parliamo appunto di scrittura, sarei curiosa di sapere se con l'esperienza maturata è cambiato il tuo approccio alla scrittura, noto una certa, da quello che mi dici, una certa incoscienza, non aver paura di scrivere, di raccontare con la tua voce, senza dover per forza accontentare un ipotetico lettore: è cambiato in qualche modo il tuo approccio, hai più timore o meno oggi rispetto al primo libro? Sei uno di quegli scrittori che ama la fase creativa iniziale, il progetto, il flusso di scrittura o invece ami di più la revisione, l'editing?

Quando ho scritto A misura d'uomo praticamente ero del tutto incosciente, nel senso non pensavo minimamente che qualcuno mi avrebbe pubblicato e quindi era anche molto ingenua come tipo di scrittura; però era anche una scrittura molto felice da un certo punto di vista proprio per quella componente lì di innocenza. Forse è questa la cosa che mi pesa di più arrivato al quarto romanzo, inevitabilmente di non riuscire a tornare a quello spirito, perché alla fine adesso quando scrivo, almeno finora, so che quello che scrivo sarà pubblicato, sarà letto, sarà lavorato.

Una responsabilità diversa?

Splendeva l'innocenza
di Roberto Camurri
NN, 2025

pp. 192
€ 17 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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Sì, più che responsabilità ho un atteggiamento diverso nei confronti della pagina e faccio fatica a non riuscire più a tornare a quello spirito di quando ho iniziato, però poi in realtà mi piace anche la consapevolezza che ho rispetto al primo libro, quindi come i miei personaggi sono una contraddizione vivente! Cerco un equilibrio e il fatto che nel quarto romanzo sia meno coinvolto emotivamente da un certo punto di vista mi ha permesso di ritrovare quasi quello spirito che avevo all'inizio, perché sì, è paradossale dirlo, però effettivamente c’è stata meno emotività nella fase di scrittura, ma più felicità da un certo punto di vista nello scrivere questa storia. In realtà la fase in cui sono da solo all'inizio mi piace, ma poi mi piace anche arrivare a quel momento in cui la mia solitudine mi pesa e non vedo l'ora di far leggere a qualcuno, perché nella fase di scrittura soprattutto all'inizio della prima bozza è come se io fossi all'interno del mio mondo e a un certo punto non riuscissi più a vedere con lucidità e ho bisogno di uno sguardo esterno. Sono fortunato, mi fido dei miei editori e quindi è molto utile avere un loro rimando su quello che sono riuscito a fare, su quello che volevo fare e su quello che in realtà ho fatto e quindi nel caso correggere il tiro. Mi piace poi lavorare insieme, il lavoro solitario e poi il lavoro di squadra si compensano.

Ecco, a proposito di questo equilibrio, il fatto che tu abbia una vita professionale anche altra dalla scrittura, ti aiuta a mantenere questo equilibrio?

Come dicevo prima sono molto contraddittorio e quindi mi aiuta e contemporaneamente mi ostacola e quindi è tutta una situazione di equilibrio, ma la cosa più strana che mi capita è che quando finisco il romanzo la prima cosa che penso è come ho fatto, cioè dove ho trovato il tempo per riuscire a scriverlo.  

Anche perché è una cosa impegnativa quello che stai facendo…

Esatto. Però in realtà non lo so perché comunque nella situazione scomoda io sto comodo, anche se poi mi lamento eccetera, però mi piace essere scomodo.

Anche in Splendeva l'innocenza i personaggi maschili sono straordinari, sono proprio la tua cifra stilistica. Mi piace come lavori su una mascolinità non stereotipata, sono uomini fragili. Questo aspetto lo ritrovo in tante tue storie e vorrei riflettere un attimo su questo, non è una domanda, vorrei riflettere con te su questa mascolinità che racconti.

Sì, in realtà a me piace tantissimo, ma più che altro perché sono nato in un periodo di cambiamento rispetto a come si osserva il maschio appunto e quindi questo mettersi in discussione per la prima volta forse nella storia dell'umanità mi affascina tantissimo perché credo che in alcuni casi questa fragilità sia qualcosa che in altri tempi era presente ma restava nascosta e quindi mi piace interrogarmi, mi piace portarla in superficie, mi piace vedere, cercare delle motivazioni in alcuni comportamenti ripetuti che sembrano inspiegabili da un certo punto di vista e in più forse anche per il mio lavoro e per quello che faccio mi piace andare a interrogare e cercare di descrivere degli esseri umani che siano appunto fragili.

In questo romanzo hai fatto una cosa interessante anche a livello di costruzione narrativa, ossia l’uso di due piani temporali inserendo un momento molto importante della storia nazionale, ossia il G8 di Genova. Da dove è arrivata l'urgenza, la necessità di raccontare quel momento, al di là del fatto che la storia si svolge a Monterosso, in Liguria, perciò c'è una certa vicinanza geografica?

Io ci sono stato al G8 ed è da quando sono stato al G8 e da quando ho iniziato poi a scrivere che volevo scrivere di quei giorni lì, però non riuscivo mai a trovare il modo perché essendo una pagina molto importante e anche molto tragica del nostro paese non riuscivo a trovare la chiave per come descriverla. Poi a un certo punto ho avuto quest'idea di non farmi schiacciare dall'importanza di quell'evento, ma prenderlo e portarlo all'altezza dei miei personaggi e quindi raccontare quello che loro hanno vissuto in quel giorno; inoltre uno di loro si approcciava a quell'evento con tutta la sua innocenza e genuinità e quindi non troppo coinvolto a livello ideale e lì sono riuscito a trovare una chiave che mi permettesse di scriverla e basta.

Era proprio la chiave giusta, si percepisce questo. Sicuramente si percepisce anche il fatto che effettivamente tu conoscevi direttamente quella situazione, come conosci direttamente Monterosso, è abbastanza evidente. Ecco i luoghi e gli elementi naturali: una cosa che noto in tutte le tue storie è come l'elemento naturale è protagonista in qualche modo della narrazione. Mi sembra di notare che l'elemento naturale a volte ha quasi questo contorno mistico, magico. L’ambiente quanto influenza le storie in cui sono immerse?

Per me tantissimo, nel senso che a me piace proprio usare la natura anche per raccontare la psicologia dei miei personaggi. E quindi è un elemento che mi serve per approfondire anche come loro osservano le cose e attraverso i loro occhi queste descrizioni credo che mi siano funzionali. E siccome mi piace raccontare di emozioni e di emotività e sentimenti da cui spesso i miei personaggi si lasciano travolgere perché non sono educati a riconoscerli e non hanno le parole, uso la natura come un elemento ancestrale attraverso il quale loro riescono a riconoscere ciò che provano e riuscire a eliminare quelle sovrastrutture che dicevo prima anche per me stesso e quindi trovare il loro lato più istintivo. In questo libro inoltre avevo bisogno che sia la natura che i miei personaggi a differenza degli altri fossero tutti fragili perché invece nei libri precedenti la natura era inscalfibile e gli esseri umani fragili e invece ambientarli in Liguria mi ha permesso che fosse tutto fragile anche la natura.

Parlavi un attimo fa delle parole che mancano, i sentimenti che non riescono a esprimersi: è una cosa che è proprio parte secondo me della tua scrittura fin da A misura d'uomo, in qualche caso più accentuato in qualche caso meno. Mi incuriosisce molto a livello di scrittura come riesci a raccontare l'assenza di parole, soprattutto nei rapporti tra uomini dove manca quel vocabolario minimo dei sentimenti, soprattutto nella nostra generazione.

Non lo so, però mi piace, sono cresciuto con l'idea che i sentimenti, le emozioni, si comunicano attraverso i gesti e quindi mi piace a un certo punto utilizzare delle cose piccoline e provare a caricarle di significato, anche gesti banali, però riuscire a creare un contorno con i carichi di quel significato emotivo e sentimentale e da quello puoi lasciare intendere che dietro il gesto ci sono tutte quelle parole non dette.

E poi c'è Fabbrico, non potevamo non fare un accenno. Fabbrico è un po' la tua costante, è bello però anche per noi tornare.

È qualcosa che mi appartiene, dò molta importanza alle radici e credo che il posto dove siamo nati in qualche modo ci definisca, perché crescere a Fabbrico è diverso da crescere in un altro posto o in una città. Mi piace anche l'idea di poter creare un universo in cui tutti i miei libri coesistono e convivano. In realtà avevo provato a nasconderlo e portare i personaggi in un luogo che non chiamavo Fabbrico, però poi in fase di editing mi hanno fatto capire che era palesemente Fabbrico e così è stato.

Tu che tipo di lettore sei?

Allora io sono un lettore strano, nel senso che ci sono delle volte che leggo in una settimana anche tre libri, poi magari faccio un mese senza leggere e poi riprendo. Però alla fine ho fatto pace con questo perché so che poi comunque mi torna quella voglia e quel bisogno anche di leggere e quindi leggo senza darmi un metodo che è il mio metodo, in qualche modo l'assenza di metodo diventa il mio metodo e allora poi mi interessa di tutto, da quando ho iniziato a scrivere sono anche molto più curioso anche per motivi professionali. A me piace un sacco leggere, mi piace un sacco comprare libri, infatti questo è un motivo di attrito a casa mia, non so più dove metterli, però è proprio qualcosa con cui sono cresciuto e quindi il libro è anche un oggetto, ad esempio ci sono dei momenti in cui ho una brutta giornata e mi viene proprio il bisogno di andare in libreria a comprare libri e spendere soldi. Una specie di comfort zone. E allora vado a casa dico ok, almeno ho raddrizzato un attimo la giornata.


Intervista esclusiva a cura di Debora Lambruschini

Ringraziamo l'autore, la casa editrice e l'ufficio stampa