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"Questa voce in me": "Quasi un consuntivo" di Remo Pagnanelli

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Quasi un consuntivo
(1975-1987)
di Remo Pagnanelli
Donzelli, 2017

a cura di Daniela Marcheschi

pp. 160
 15,00 (cartaceo)




"ascolto questa voce in me / che pure addormentata / non vuol morire / e s'apre". Leggere questi versi tratti da Preparativi per la villeggiatura di Remo Pagnanelli (1955-1987), a trent'anni dal suo suicidio, ci dà l'idea di cosa abbia rappresentato la scrittura in versi per il giovane poeta e critico maceratese. Una fede sorda e irrazionale capace di rischiarare e aprire certe zone del quotidiano per il resto insensate, ovvero "un bisogno e solo in quanto bisogno una necessità". In definitiva, ciò che giustifica, oggi, un bilancio di questa scrittura condannata a non potere andare oltre il suo stato di 'consuntivo', di verifica ossimoricamente incerta e mai conclusa del proprio essere e della realtà. 

Quasi un consuntivo (1975-1987), edito da Donzelli con l'amorevole cura di Daniela Marcheschi, ripropone dunque al lettore italiano le raccolte a stampa di Pagnanelli pubblicate dopo la sua morte (Epigrammi dell'inconsistenza, L'Orto botanico e Preparativi per la villeggiatura) ma i cui tempi di effettiva stesura abbracciano l'arco cronologico del dodicennio indicato dal titolo. Quello che emerge in primo piano dall'antologia della Marcheschi, oltre all'altissima qualità letteraria dei testi che accolgono echi e suggestioni stilistiche della coeva poesia secondonovecentesca (dagli amati Sereni e Fortini a Bertolucci e Zanzotto, senza snobbare alcuni esiti espressivi della neoavanguardia), è l'assoluto rigore intellettuale che sottende e in-forma la scrittura di Pagnanelli, tanto da configurarsi, questa, come una "laica e moderna 'contemplazione della morte e dell'immortalità' [...]; il guardare la vita con distacco come da un tempo altro, nel laico interrogarsi sulla presenza della morte, sulla sua natura onnipervasiva e distruttrice", come ben scrive la curatrice nella Nota finale.


Negli Epigrammi dell'inconsistenza, la prospettiva straniante, quella propria di "un mondo visto / dall'alto, nello spolio e nell'inumazione" (Tramontano le Pleiadi), testimonia una scissione inerente al soggetto poetico che si confronta ripetutamente con le ragioni della vita e della morte, anzi, più precisamente, di quel limbo che si situa in mezzo: "Mia ombra mio doppio / talvolta amico ma più spesso / straniero che mi infuria ostinato, / mio calco che nessuna malta riempie, / fantasma appena colto / [...]" (Mia ombra mio doppio). Inconsistente è il tempo, qui rappresentato appunto come un'astrazione - "Piè Veloce non agguanta / la sua tartaruga né noi il tratto esiguo / d'una giornata" -, perché di fronte all'unica, martellante certezza che è la morte il vivere si palesa come un "dormiveglia" ripetuto ad infinitum dalla "agonia" di giorni uguali e che non significano.

Tale sguardo non pacificato e, soprattutto, lontano da qualsivoglia forma di consolazione si ritrova nel poemetto in quattordici stazioni L'Orto botanico, vincitore nel 1985 del premio Montale. Apparentemente abbandonata la dimensione antropomorfica (e antropocentrica) in favore di un universo inteso nella sua consistenza vegetale dove "vige" il "riso appena increspato e crudele di un dio / folto di erbe e specchi", la scrittura di Pagnanelli, pur poggiando sulla grazia di una versificazione classica vicina ai modi dell'elegia, persegue la sua indagine radicale sui fondamenti dell'esistere che infine non ha altra risposta se non, leopardianamente, "l'avello di beltà ornata beltà disadorna / congiunte insieme".

La "villeggiatura" a cui fa riferimento l'ultima raccolta inclusa in questa antologia (Preparativi per la villeggiatura) assume allora i connotati ironici di un progressivo distacco che, a posteriori, prefigura la cruda morte del poeta. Ancora una volta sulla scia del maestro Sereni, le prose e i versi che compongono questo libro ci restituiscono l'understatement e la lucidità intellettuale e morale di Pagnanelli che affronta senza la necessità di uno schermo mistificante una realtà che ai suoi occhi si incupisce sempre di più:
perché lamentarsi? Hai avuto anni di giornate infinite, adolescenziali, in cui il tempo si protraeva in lenti crepuscoli. Allungata oltre i naturali confini, l'infanzia si è mutata in un mostro inavvertito, in cicliche e sorde lancinanze, ma finché è durata, è durata..., perché lamentarsi ora, come non credere (non cedere) all'ipotesi d'una generica armonia? 
Soprattutto, si sente molto forte in questi 'preparativi' l'esigenza di un recupero del passato perché possa divenire una fede (laica e materiale, certamente) in una "generica armonia" che, se non consola, almeno provi a dare una parvenza di giustificazione al susseguirsi delle stagioni, degli anni, delle vite.


Pietro Russo