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#PagineCritiche - Giulia Bocchio scende nell'Olimpo nero del sentire, dove "il bello è brutto e il brutto è bello"

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L’Olimpo nero del sentire.
L’esaltazione estetica del brutto
di Giulia Bocchio

Marsilio, 2016

pp. 90
Euro 14,00

L’Olimpo nero del sentire di Giulia Bocchio – già autrice di Harmattan poetico (Editrice Lorenzo, 2013) e Il vento del vanto (Genesi Editrice, 2014) – può essere definito una sorta di corso accelerato che, come da sottotitolo, si propone di affrontare L’esaltazione estetica del brutto. Il volumetto edito da Marsilio condensa difatti in poco meno di cento pagine una questione impegnativa quale il brutto/la bruttezza vista non tanto attraverso il prevedibile e avvilente paragone con il suo (supposto) contrario (ovvero il bello/la bellezza), ma in quanto categoria parimenti apprezzabile e godibile attraverso un uso peculiare - vale a dire, appunto, "esaltante" e "estetizzante" - del linguaggio.

Non si tratta di un compito semplice: soprattutto, adottando la misura breve, il rischio di sintetizzare eccessivamente o, peggio, di banalizzare una tematica così complessa, antica e ancora oggi dibattuta si presenta elevato. E forse è proprio per scongiurare questo pericolo, e per distinguere il proprio lavoro dalla bibliografia sull’argomento (piuttosto consistente, sebbene alcuni riferimenti imprescindibili siano indicati in coda al volumetto), che l’autrice opta per un approccio più evocativo che analitico, e per una prosa più creativa che accademica, senza nulla togliere alla logica delle argomentazioni e alla puntualità dei riferimenti. È la stessa Bocchio a esplicitarlo nell’Introduzione, nel momento in cui spiega come le pagine del libro «altro non saranno se non mirabili trasposizioni immaginifiche atte a trasformare le macchie e le sozzure dell’anima e dell’arte in petali vellutati»: la magnificazione del brutto e delle bruttezza sarà dunque condotta attraverso il bello del linguaggio, che per lo scopo «si farà miele sui rovi della stravaganza».
«La bruttezza è principalmente un’aura da disambiguare attraverso un lessico e un linguaggio nuovi: l’espressione massima, ricercata, virtuosa e altissima per osservare e descrivere da una prospettiva privilegiata ciò che a primo acchito di pregio e privilegio par privo»:
è questa la convinzione autoriale alla quale rispondo i quattro capitoletti, suddivisi in paragrafi dai titoli evocativi, in cui Bocchio, in una sorta di climax ascendente, articola la propria riflessione. Si parte dal confronto inevitabile tra le categorie di bello e brutto (con le relative implicazioni etiche e morali), si continua con il disvelamento del fascino della bruttezza (con l’ingresso delle categorie del sublime e del perturbante), per arrivare alle riflessioni di pensatori quali il tedesco Karl Rosenkranz (autore nel 1853 di una capitale Estetica del brutto) e il danese Søren Aabye Kierkegaard (chiamato in causa per il suo Diario del seduttore del 1843); e per concludere, anche a spia dell’attrazione dell’autrice per la Francia e per gli ambienti parigini (come si legge nella breve nota biografica sul retro di copertina) il culmine si raggiunge con la disamina dell’opera di Charles Baudelaire, autore dei Fiori del male (1857), definito vero e proprio «concubino della bruttezza».

Se al termine della lettura non si può negare che L’Olimpo nero del sentire sia una prova certamente ambiziosa, in più punti esso rischia tuttavia di confondere o frastornare il lettore poco ferrato sull’argomento, che meglio si avvantaggerebbe di una prosa meramente esplicativa o semplicemente più piana e transitiva. Eppure - e qui sta il busillislo stile e il registro adottati da Bocchio non potrebbero essere che questi, pena il tradimento dell'impostazione generale di un'opera che, come viene ulteriormente esplicitato nelle Conclusioni, si prefigge per l'appunto di "dare il braccio" a "Sua Maestà il Linguaggio":

«la potenza di un lessico ricercato e a tratti sopraffino in quella straordinaria elevazione estetico-poetica che si può donare al brutto, esaltandolo attraverso l'uso di aggettivi attentamente scelti, è l'essenza stessa di questo libro, di queste pagine. Ove ogni immagine si fa parola e schiude un universo di termini e rielaborazioni poetiche che molto hanno a che fare con la metafora, con la prosodia d'ogni vocabolo e l'onirismo dell'interpretazione e dell'immaginazione di chi scrive. La necessità e il gaudio di (de)scrivere col linguaggio amplificato della bellezza, e della meticolosità estetica della lingua italiana, il crepuscolo della sgradevolezza e della repellenza è certo la caratteristica principale di questo "viaggio" fra i vari recessi della bruttezza. Già di per sé voce del verbo "esaltare" dunque».

Proprio al curioso eventualmente deluso, magari respinto da troppa intensità, l'autrice sembra rivolgersi nella chiusa del lavoro per ribadirgli come l’impegno maggiore, primario e più necessario alla comprensione del saggio sia accettare in toto il ribaltamento di una certa prospettiva estetica, talmente imperante da essere divenuta senso comune:
«l’esaltazione estetica del brutto non corrisponde certo alla mera piacevolezza che si può ricavarne, non si tratta di affermare quanto esso corrisponda al bello, a un nuovo bello soggettivo e figlio di profonde riflessioni che hanno superato la mera proporzione. No. Trattasi di addentrarsi nelle viscere della bruttezza e di ciò che ne è stata l’espressione per non percepirla mai come tale, per non provare più ripugnanza alcuna per ciò che (proprio?) attraverso essa ha delineato i profili del proprio essere, della propria unicità, del proprio inconfondibile parametro epistemologico».

Cecilia Mariani