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"La prima luce di Neruda" tra poesia e storia

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La prima luce di Neruda
di Ruggero Cappuccio
Feltrinelli, 2016


pp. 170
€ 15,00 (cartaceo)



Qualcuno bussa a una porta e con insistenza fa il nome di Pablo Neruda. Siamo alla prima riga de La prima luce di Neruda e il lettore più scafato, quello che ha già letto il Kundera de "L'insostenibile leggerezza" per intenderci, sa già che a bussare è il destino. Scoprirà, successivamente, che è in effetti così, ma intanto, a differenza di chi si spella il palmo aperto della mano contro quella porta, entra nella camera di una pensione di Napoli dove un uomo è disteso su un letto, in bilico tra il sonno e la veglia, e un uccello sbucato chissà da dove svolazza tutt'intorno. Quell'uomo è Pablo Neruda e, a questo punto, il sospetto che il volatile (per l'esattezza un cardellino) che cerca di trovare un angolo discreto da cui osservare la scena sia proprio lo stesso lettore si fa strada con una certa discrezione. Tanta è la grazia e la delicatezza con cui il napoletano Ruggero Cappuccio (drammaturgo, sceneggiatore per il cinema e la televisione, romanziere) ci trascina dentro questa storia che intreccia piani temporali diversi e accarezza l'idea, molto cara ad alcuni teorici di fisica quantistica (ma anche a pensatori come sant'Agostino), che in una singola frazione di tempo tutto sta avvenendo, è avvenuto e avverrà.

Dunque siamo a Napoli, anno di grazia 1952, e una simpatica coppia di poliziotti che sembra uscita da una canzone di De André notifica al grande poeta cileno un decreto di espulsione dall'Italia. Nello stesso istante, nella camera di una pensione di Roma, in vicolo dell'Orto di Napoli (lo zampino del caso, in questo romanzo, è così manifesto da eclissarsi subito all'orizzonte), una donna sta versando calde lacrime d'amore. Non una donna qualsiasi: Matilde Urrutia, che sarà terza e ultima moglie di Neruda. Si sono già conosciuti e amati a Santiago, Pablo e Matilde, poi persi e ritrovati varie volte in giro per l'Europa.

Ma stavolta sta accadendo qualcosa di misterioso e necessario; come il destino che bussa a una porta, appunto, oppure che si nasconde sotto le spoglie di una notte incorniciata dalla grande bellezza romana fino alla prima luce dell'alba, e soprattutto sotto quelle del soggiorno a Capri in quello stesso 1952 - già spunto della felice invenzione narrativa di Skármeta quindi del cult cinematografico con Troisi. Luoghi, frammenti di sensi, fotogrammi di un vissuto che ritorna alla ribalta nel 1973, quando il destino politico del Cile e quello del suo figlio più illustre si congiungono in limine mortis nell'ultimo atto d'amore e d'agonia. In modo che, nell'intreccio dei due piani temporali, il testamento poetico e umano di Neruda (così come quello politico di Allende) risuoni con la voce impetuosa e tonante dell'oceano che bagna l'ultima residenza terrena del poeta. Il 1952 e il 1973 sono dunque solo cifre che scandiscono il passare del tempo umano: quella prima luce che annuncia il giorno racchiude infatti il principio e la fine di tutto, che sono sempre stati la stessa cosa.

La scrittura di Cappuccio, tesa e avvolgente, ha l'intensità e l'urgenza della poesia: il lettore, sbattuto dalle onde delle parole - proprio come accade leggendo " I versi del Capitano" del poeta cileno -, si lascia condurre docilmente avanti e indietro nel tempo e nello spazio di una storia che ha l'aerea levità del realismo magico sudamericano, sospesa com'è tra la nuda realtà del dato storico e la fisicità sensuale dell'amore. Ed è proprio in questa soglia che si insinua la prima luce, di Neruda e non solo.


Pietro Russo