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"Aristeia" di Fulvio Gridelli

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Aristeia 
di Fulvio Gridelli
Il Vicolo divisione libri, Cesena, 2016 

pp. 64



Una lettura attenta di Aristeia, raccolta di poesie curata da Fulvio Gridelli, permette al lettore di entrare in una dimensione poetica che attinge sia da quadri memoriali biografici dell’autore a contatto con la propria terra natia, sia dai racconti che rinviano all’oralità e alla mitologia classica. Ogni lirica rappresenta un enunciato in sintesi di un blocco narrativo dove lo scrittore si colloca o si trova in uno stato di osservazione, in uno spazio tempo suggestivo: dalla nebbia di Atlas, alle dodici galassie dell’universo, al paesaggio innevato, al recinto sull’apriche zolle, al Golgota arcano, al giardino dal glicine vetusto si dipana una storia narrata che ha un incipit e una fine. Il mito è un racconto sacro ed esemplare che riferisce un avvenimento del tempo primordiale e fornisce all’uomo un senso determinante per il suo comportamento. Per la sua funzione simbolica, il mito svela il legame dell’uomo con il sacro. Molte liriche presentate in questa silloge si innestano proprio sul connubio tra vita e sacralità mitologica.
Nella seguente poesia, Arco d’elettro, la congiunzione iniziale introduce il lettore in una narrazione che prende il via dopo un’attesa crescente di ardore guerresco.  Il calore e la luminosità della prima luce, foriera del giorno, diviene prodromo di un episodio che vede protagoniste le azioni legate all’arco d’ambra gialla antico. Di lieve spettro e trasfumato velo, l’arco non è guidato da un umano ma da mano divina. È un arco di pura materia che dall’astro solitario al cielo arriva curiosamente silente sui templi in maceria e che continua il suo viaggio su mete inimmaginabili, lasciando in sospeso le risposte terrene.

E quando arde la gran palla in fasce,
ancor di fuoco nell’umido stampo
sparse le forme, in luce rinasce,
l’alborea foggia d’elettro in lampo:[…]

E fu, dal pugno non terrestre un arco,
di lieve spettro e trasfumato velo;
riposto in solco, qual superno varco,
com’ermo astro semicurvo al cielo
piegò silente sui templi in maceria;
piegò silente qual pura materia.

Il mito è da sempre portatore di un linguaggio e di un messaggio che rinvia alla condizione umana. L’uomo coglie con sorpresa la luce del lampo e immerso tra le consuetudine del mondo contadino si arresta quasi per beneficiare del fascio di luce. Il quadro agreste si arricchisce di significati ultraterreni: l’obiettivo dell’arco è crudele perché va a colpire proprio il braccio dell’uomo, monco e infermo all’appiglio. È il fato spietato che scaglia con brutalità la sorte avversa pescando dall’universo umano la vittima innocente.
E quando rivedrai sul campo agreste,
quella luce che dall’arcano sferra?
Il colono non sa: a ogni gir celeste,
sgobba ricurvo sulla negra terra;

E allor misero, gli casca il braccio,
monco tramuta e infermo all’appiglio,
con dentro un male che ritorce il ghiaccio;[…]

Nella raffigurazione poetica mito e ritualità sono congiunti; il rituale permette la ricreazione del mito, un ritorno alle origini e alla creazione: in questo modo esso diventa generatore di nuove forze. L’uomo indifeso è più attaccabile; soffre, patisce e affronta il destino infausto. Le strofe finali bene tratteggiano la disparità tra l’universo ideale mitologico e il mondo terreno: l’epiteto finale rivolto agli Immortali, vincitori immorali e ingiusti sugli uomini divenuti carni da spaccio per gli eterni chiostri, segna un’incomunicabilità eterna tra i due mondi e una presa di coscienza superiore divina esauriente per il fato, ma che lascia interdetto e inerme l’uomo.

E voi Immortali, che ebbri ancor brindate,
radiosamente onniscenti sui dischi:
niente sappiamo dell’ultima etate.
Qui l’occhio oltre non va, i vostri obelischi;
qui vanno all’abbandono i figli vostri;
carni da spaccio per gli eterni chiostri.

La seguente lirica presenta invece un quadro metafora sulla ciclicità della vita in cui la situazione esistenziale della figura anziana viene associata all’immagine del vecchio glicine che non emana più il profumo intenso dei suoi fiori, ma offre il proprio magro aroma estivo ai raggi d’oro mattutini e schiude la perla di farfalle viola. Il vecchio è giunto al termine del proprio viaggio irregolare, come possono essere i percorsi di vita più disparati, di chi ha cercato affannosamente qualche brandello di felicità, o al contrario di coloro che sono consapevoli di aver avuto e beneficiato molto dalla vita.
Ora l’anziano si trova in una situazione fisica disagevole; il suo appoggio vacilla, ma non cede, come il glicine vetusto, che continua ancora ad adornare fra mezzo la ferrata. L’accostamento precisa le particolari condizioni limitative dei due esseri. Trema quel vecchio perché ha davanti le scale e tentenna con le gambe al gradone. Il concetto identitario tra glicine e il vecchio si precisa nel distico finale quando anche il glicine nato sul viale stringe l’intrico nel saldo spuntone.

Il vecchio e il glicine

Di magro aroma sparso ai raggi d’oro
schiude la perla di farfalle viola,
al mattutin soffio caldo e canoro.
È il glicine vetusto, che adorna
Fra mezzo la ferrata; quando svola
il bombo, che qui frulla: lì va, or torna.
Torna anche un vecchio al fin d’un viaggio; ei vede:
il suo appoggio vacilla, quando il gambo
attorce in nodi al ferro; e non cede,
qual scabro osso, nella morsa strambo.
Trema quel vecchio: ha davanti le scale;
va tentennando le gambe al gradone;
nel mentre il glicine, nato sul viale,
stringe l’intrico nel saldo spuntone.

Il tema del viaggio per mare è una ricorrente metafora letteraria poetica: l’uomo di mare vaga da un lido ad un altro consapevole che l’incertezza della precarietà della sua vita si scontra con l’attesa statica e dolorosamente imposta alla propria donna. Il titolo, Altri lidi, diviene esplicativo rispetto alla lontananza forzata, ma intensamente voluta dal protagonista, uomo di mare itinerante, che non ha una meta prefissata e vive con intensità il momento di distacco dalla propria amata. Con le mani strette in riva al porto egli si stringe alla donna e, prima di muover le vele verso altri luoghi, si sente un uomo risorto. L’enfasi dell’uomo rinsalda il legame amoroso che consente la ripartita verso nuove mete.

Altri lidi
E con le mani strette in riva al porto,
poi che nel bacio si sparse il tuo miele,
ecco sentirmi un uomo risorto;
mosser le vele.

Sembra esserci un legame tra cielo e terra, tra le onde gravitazionali e il volger d’ali tra le stelle, tra il disorientamento umano vissuto nello spazio infinito del mare e il ricordo della vita mondana lontana dal presente, tra le finte certezze umane e lo smarrimento nell’affrontare i turbinii della vita.
All’improvviso una luce improvvisa, luminosa, dà un chiaro segnale di riavvicinamento dell’uomo con la propria patria terrena. Se il mare fino ad allora poteva essere il luogo di custodia sicura o al contrario il posto dell’inquietudine, il ritorno al lido coniugale  riecheggia come tamburo dall’eco superno…al soffio eterno. Il suono di antica mitologia che apre la porta celestiale è il segnale del lascito tra il mondo reale e l’ universo celestiale intessuto di richiami leggendari.

Colsi le onde gravitazionali
Formicolare ai pori della pelle
Resse lo spirito volger le ali
Su tra le stelle.
Scorsi esplosiva una luce lontana,
e la paura dell’uomo smarrito;
nel mare, dentro, la vita mondana
fronte un marito.

Udii la porta celeste tonante,
e alto il tamburo dell’eco superno;
vidi l’argilla, agir suscitante,
al soffio eterno

Tutte le composizioni poetiche sono costruite e fissate dalla tradizione in formule metriche: l’autore presta molta attenzione alle rime, alle allitterazioni alla combinazione fonica tra assonanze e consonanze. Le immagini “raccontano”, descrivono o narrano testi che si potrebbero adattare alla gestualità teatrale e vi si legge, in filigrana, una solida conoscenza classica che in questo caso si coniuga con la libertà di creare. Il poeta oggi è uno sventurato che non vive la sua epoca, afferma l’autore. Il poeta in questo caso, si esprime attraverso fattori e impulsi emotivi che riflettono archetipi interiori, il poeta è colui che avverte più degli altri la forza profonda dei simboli della natura, dell’essenza e del significato che egli attribuisce a ciò che lo circonda.