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L'esordio di Don DeLillo

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Americana
di Don DeLillo
Einaudi, 2008 (1971)
traduzione di Marco Pensante

pp. 413
13,50


Gli anni Ottanta sono quelli dei grandi romanzi di Don DeLillo, romanzi che gli danno fama e il posto d’onore fra i grandi della narrativa contemporanea. Poi un lungo silenzio propedeutico al parto di quello che è considerato il suo capolavoro: “Underworld”. Nato nel Bronx da immigrati molisani, questo grande amante del cinema europeo, da Fellini a Jean-Luc Godard, esordisce nel 1971 con “Americana”, road-movie autobiografico che già contiene molti temi della sua futura narrativa, sui conflitti e le angosce della vita americana contemporanea.
Il narratore e protagonista del romanzo è David Bell, un ragazzo brillante, dirigente televisivo, che a un certo punto decide di abbandonare gli uffici del network dove lavora per andare a girare un cortometraggio sugli indiani Navajo. Finirà invece per perdersi nei più sperduti villaggi dell’ovest dove girerà sì un film ma decisamente diverso rispetto ai propositi iniziali. Ne viene fuori una pellicola d’avanguardia che ritrae alcuni giovanotti di strada, anime dimenticate che rivelano tanti fallimenti umani. Il giovane di belle speranze, newyorkese e affascinante, dirige l’obiettivo della cinepresa verso chi sta ai margini.
La struttura del libro, innanzitutto: concepita come tre elementi in relazione fra loro. Trattano situazioni molto diverse, prefigurando sviluppi futuri. Un intreccio che alla fine funziona e questo in un libro d’esordio. DeLillo ha stoffa. È nato per scrivere, d’altronde lo dirà a un certo punto della vita quando abbandona ogni mestiere per tuffarsi nella sua passione.
La prima parte di “Americana” si svolge in uno di quei grattacieli che caratterizzano New York e che sono l’icona, di ferro e cemento, del sogno a stelle e strisce. L’urbanistica al servizio delle corporation. David Bell si affaccia nella vicenda come un moderno uomo d’azienda, è ironico, frequenta feste in compagnia di splendide donne ma non esita ad avviare personali indagini sul malessere esistenziale dei suoi colleghi. Su David Bell non esitano a nutrire aspettative i dirigenti superiori e in effetti il giovane non pare coinvolto nei processi di epurazione del personale che stanno per cominciare.
Seconda parte: si torna indietro nella vita di David, in particolare DeLillo si sofferma sul suo matrimonio fallito, su come ha conosciuto la ex moglie e perché non ha funzionato. Queste secondo me sono le pagine migliori del romanzo. Le più lineari. Non mancheranno, sempre secondo me, nella terza parte un certo dilungarsi e qualche incontro di troppo soprattutto verso il finale che, invece, è ridotto a una virata secca e perfino spiazzante. Ma siamo a un libro d’esordio, non dimentichiamolo. Trovo riuscita la seconda parte, dicevo, perché questo guardarsi indietro è come un modo per accumulare energia prima del definitivo tuffo nell’evasione.
Terza parte: la fuga e una riflessione potente sul cinema, sul rapporto tra immagine e realtà, tra ciò che viene fatto apparire e ciò che sta dietro. David Bell scopre di essere un uomo che ha voglia di affrontare la complessità del vero, anche se questo è buio e silenzio. Questa capacità introspettiva è prerogativa dell’artista, ovvero ciò che egli vuole diventare. Impara ad amare il suo film mano a mano che lo compone e lo vede scorrere nel proiettore ed è un amore nutrito da una consapevolezza: David sa che il suo è un tentativo generoso per non dire folle. Per questo in grado di commuovere. Anche noi a distanza di decenni.

Marco Caneschi