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L'arte scopre la natura nel suo stato di pazzia: «La dea delle piccole vittorie»

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La dea delle piccole vittorie
di Yannick Grannec
Longanesi, 2014




Esiste un confine sottile tra il genio e la pazzia: e, forse, il compito dell’artista genio è proprio questo. «Scoprire la natura nel suo stato di pazzia».

Quando il genio che è nel genio diventa demone, diventa motivo di alienazione, di chiusura, e di un lento, e inesorabile, consumarsi in se stesso?

Yannick Grannec, su queste domande, ha costruito un libro straziante, che riesce a far piangere di rabbia e di commozione.
Si studiano i Grandi, siano essi letterati, filosofi, poeti, pittori, scultori, matematici, fisici, con la pretesa che essi non siano anche esseri umani, con un portato di debolezze e di fragilità che molto spesso è celato dalle loro intuizioni e scoperte.
Spesso, nei manuali, si salta a piè pari la parte biografica, perché quello che interessa è l’innovazione, l’originalità del pensiero, le scoperte.

La dea delle piccole vittorie cambia le carte in tavole: sarebbe stato facile far raccontare a Gödel la sua vita, le sue sofferenze, le sue follie, il suo demone interiore: risultato sarebbe stato un affresco geniale, ma profondamente ingiusto e parziale.
Ingiusto per chi? Per il lettore? Forse. Ma ingiusto soprattutto per una persona. Per Adele Gödel, la donna che ha azzerato la propria vita, che ha relegato in un cassetto altissimo i propri sogni. Il mondo di Adele diventa un mondo fittizio, un cuscinetto, basato su un’apparente superficialità che nasconde le mille domande che la donna, da vecchia, continua a camuffare dietro un carattere scontroso e distante.

L’Accademia ha punito suo marito, non riconoscendo il suo valore, non ammettendo che quella sua mania altro non era se non un guscio contro il male e la delusione. In vecchiaia, Adele decide di punire l’Accademia, conservando gelosamente l’archivio del marito, e prendendosela con Anna Roth, apripista e prestanome di coloro che considerano, a posteriori, quelle carte come il supremo lascito di una mente eccelsa, dimenticando, o facendo finta di dimenticare, le manie, le pazzie e le eccentricità del corpo che ospitava quell’illustre demone.

L’incontro della giovane Anna e dell’anziana Adele dà il via a un cortocircuito storico, temporale e spaziale: la vita della prima comincia, leggermente a prendere linfa da quella della signora Gödel, la quale, inconsapevolmente, riesce a riscattare la sua non vita, attraverso il dono fatto alla signorina Roth.

Grannec costruisce un mosaico in cui ogni tessera è sempre al suo posto, senza mai dare l’impressione del collage: mette sul piatto nomi importanti, avvenimenti importanti, scoperte importanti, ma trattando ogni singolo aspetto della sua storia allo stesso modo, senza dare priorità.
Non c’è una sola riga che non porti impresso il sigillo di qualcosa di rotto, di qualcosa che non sarà mai come prima, di qualcosa di irripetibile.
Un continuo evolversi dentro, però, un bozzolo chiuso, claustrofobico, che toglie ogni parvenza di salvezza.
Kurt Gödel, Adele Gödel, Albert Einstein, Anna Roth: tutti sanno di essere condannati a qualcosa di oscuro.
Un’oscurità che non può essere espiata, alla quale non possono essere innalzati sacrifici: sarebbe tutto vano.

Un romanzo che descrive l’impossibilità di parlare: «Non chiederci la parola», scrive Eugenio Montale. E questo verso potrebbe essere il filo rosso che descrive la storia tra Kurt e Adele: una richiesta di lui, che è destinata a infrangersi contro l’amore incondizionato di lei, che non si spegne nemmeno di fronte alla terribile scoperta di non essere mai stata oggetto, nemmeno di una mera citazione, del carteggio tra l’illustre matematico e la madre.
Adele, vecchia, si sente una presenza sostituibile: proprio lei che ha sacrificato la reputazione, la vita, il fisico a un uomo perennemente centrato su se stesso. E decide di non accondiscendere più a nulla, anzi di imporre, di imporsi: e lo fa con Anna, signorina indecisa e apatica, perennemente insoddisfatta, una ragazza che ha smesso di sognare per una volontà autoinflitta, per un’apatia nei confronti del reale che, per Adele è ingiusta, ingiustificata e priva di logica.

Il gioco della signora Gödel, tuttavia, non è la carneficina che il lettore si aspetterebbe: non sempre si ripaga con la stessa moneta. Non sempre la tempra passata riesce a forgiare anche la tempra presente. Dietro la sua crudeltà con la giovane studiosa si nasconde l’ansia del riscatto, la voglia straziante di non permettere che altri sacrifichino qualcosa di sé in nome di nulla.
Adele Gödel vuole insegnare ad Anna Roth che si deve pretendere di essere almeno citate, almeno in una lettera del proprio marito.

La figura di Kurt Gödel, a parere di chi scrive, assume spessore proprio in virtù della moglie: se Grannec avesse scelto di scrivere un romanzo dalla prospettiva del grande matematico, probabilmente avrebbe fallito.
Invece, proprio grazie al personaggio di Adele, tutto e tutti sembrano assumere uno spessore nuovo e inedito, come se fosse la donna a dirigere il gioco delle luci.
Una donna sola che crede di non esserlo, una donna forte che crede di essere debole, una moglie che crede di essere una mera infermiera, quando, invece, è solo una pedina di un gioco devastante, quello che si innesca nella mente di Kurt Gödel.
Il libro si chiude, con una morte e una rinascita: rispettivamente quella di Adele e quella di Anna.
Ma si chiude anche con il perdono: le carte del matematico. Una pace siglata dalla signora Gödel e la matematica: entrambe hanno cercato disperatamente di salvare Kurt, fallendo miseramente.
Non il matrimonio, non la matematica hanno portato Gödel alla follia: ma se stesso. Il matrimonio, la matematica sono stati i prestanome della verità, che, per tutta la vita di Adele e di Kurt, si è sempre annidata dietro le scuse e le giustificazioni.
Una verità che ha giocato a nascondino con le persone, con i sentimenti, con il tempo, con la storia, senza mai far fare a qualcuno “tana”. Una verità che è il vero motore del romanzo, il vero oggetto della ricerca spasmodica.

Ma una verità che nemmeno in punto di morte riuscirà a emergere: perché, in fondo, si è adattata all’ermetismo di Kurt e di Adele. Quello dell’uomo legato alla sua matematica, quello della donna legato alla sua vera volontà.

La vera vincitrice, in fondo, è Anna, colei che ha ancora tempo, colei che può ancora scegliere, colei che può ancora sbagliare e imparare.

La dea delle piccole vittorie toglie la facoltà di respirare e di pensare: ci si immerge in una lettura delirante e onirica. Quando si gira la pagina si ha la sensione di trovarsi in un luogo e in uno spazio che non possono appartenerci.
Ogni parola mette in dubbio quella successiva, ogni prospettiva, anche quella del grande Einstein, in fondo è un errore di valutazione, è sempre marchiata dal sigillo della fallibilità dell’uomo.
Un romanzo che deve essere letto da tutti: ma soprattutto da chi crede che l’arte (in fondo in quale altro modo può essere definita la matematica?) è un salvagente, una protezione contro il male.

L’arte non porta alla felicità, ma indica una strada: è la volontà tanto del genio, tanto della persona “normale” a dover saperla percorrere.