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Splendori e miserie (non solo) del calcio

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Splendori e miserie del gioco del calcio
di Eduardo Galeano
Sperling&Kupfer, 2005

pp. 288
€ 16.50


Volendo ripercorrere le tracce del Novecento in una prospettiva finalmente globale e non più compartizzata dai soliti criteri geografici o politici, più della celeberrima etichetta di "secolo breve" forgiata da Eric Hobsbawm, un'altra, originata da una materia di natura diversa e più attinente a dinamiche sociali, si impone all'attenzione degli storici e meriterebbe una seria considerazione: 'secolo del fútbol (o futebol)'. Con la scelta della variante linguistica ispano-portoghese che prevale su quella anglofona, e non casualmente; perché se è vero che sono stati i gentlemen di Sua Maestà britannica, nella seconda metà dell'Ottocento, a inventare ed esportare il soccer in giro per il mondo, lo è altrettanto che è grazie all'estro e alla vitalità folkloristica e caciarona di quel Sudamerica latino se oggi il calcio è lo sport più popolare e più diffuso nei quattro angoli del pianeta. 

Sudamericani, infatti, sono i più grandi cantori di questo sport che nelle loro pagine assume di volta in volta i connotati di "ultima rappresentazione sacra del nostro tempo" (Pasolini docet), di epica transnazionale, di tragedia postmoderna e persino di una manifestazione di poesia pura come mai avrebbe osato immaginare, nella prima metà del secolo scorso, il nostro grande filosofo don Benedetto. Nello specifico, ci si sta riferendo alle opere dell'argentino Osvaldo Soriano e dell'uruguagio Eduardo Galeano, giganti della letteratura ispano-americana del Novecento accomunati dalla passione per un calcio geniale e sregolato, eccessivo e al tempo stesso "umano-troppo-umano" come si gioca (e si vive) solo sulle sponde opposte del Río de la Plata.

Splendori e miserie del gioco del calcio di Galeano (come del resto molti indimenticabili racconti di Soriano), capolavoro letterario tout court a cui sarebbe davvero ingiusto aggiungere la limitazione aggettivale 'sportivo', esprime mirabilmente la natura dilemmatica ab origine tra il sacro e il profano, tra la magia dell'archetipo e la meschinità umana di quello che, fatti di cronaca alla mano, è difficile catalogare solo come sport. "Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio", diceva Camus, che prima di diventare lo scrittore che tutti conoscono giocava come portiere negli anni algerini della sua formazione.
Sull'impatto del calcio nella storia del Novecento, per tornare al punto di partenza, ci sarebbero in effetti fiumi di inchiostro da versare (o valanghe di battute da digitare). Lo dice chiaramente Soriano, sorpreso di come
la storia ufficiale ignora il calcio. I testi di storia contemporanea non lo menzionano neanche di sfuggita, in paesi dove il football è stato e continua a essere un segno primordiale di identità collettiva. 
Senza scomodare troppo la tradizione storiografica delle Annales, non è difficile scorgere, nella serpentina 'mondiale' di Maradona o nell'elevazione siderale di Pelé, in un tacco di Cruyff come in un dribbling di Garrincha, la trama della storia (con la maiuscola) intrecciata da un pulviscolo, quasi invisibile a occhio nudo, di piccole storie umane, quasi sempre immortalate nel tragitto che dalla miseria, di qualunque tipo, conduce allo splendore e ritorno. Come non è difficile, e anzi a dire il vero nasconde un che di suggestivo 'vedere' la "mano de dios" come la subdola vendetta argentina consumata in un rettangolo di erba sintetica contro la potenza militare britannica; o indovinare nelle veroniche di Friedenreich e Andrade e Leonidas i prodromi delle rivendicazioni e delle lotte dei neri per l'uguaglianza dei diritti civili che hanno scandito il secolo scorso; o ancora ripercorrere la rivalità secolare tra Honduras e San Salvador che deflagra di colpo in tutta la sua ferocia in occasione dello scontro tra le due nazionali in vista delle qualificazioni al mondiale del 1970.

Calcio ma non solo, dunque. Come suggerisce magistralmente l'endiadi del titolo. Perché per ogni giocata di un Baggio, Eusebio, Di Stefano, Romario, Beckenbauer, si celano ombre più o meno dense che nell'ultimo ventennio si sono profilate alla ribalta per mezzo di quella "telecrazia", bestia pluricefala e occhiuta, attorno alla quale ruotano interessi economici globali da capogiro. Soprattutto quando la penna di Galeano è costretta ad affrontare queste sgradevoli quanto ineludibili questioni, la verve ironica e poetica dello scrittore uruguagio si annienta a beneficio di toni malinconici, spietati, cupi:
La morale del mercato, che ai nostri giorni è la morale del mondo, autorizza tutte le strade che portano al successo, per quanto banditesche. Il calcio professionistico non ha scrupoli perché fa parte di un sistema di potere che scrupoli non ha e che è disposto a comprare l'efficacia a qualsiasi prezzo. 
"Colpa del calcio" dunque, come si chiede Galeano, "o colpa della cultura del successo a tutti i costi e di tutto il sistema di potere che il calcio professionistico riflette e integra?". Per rispondere con la giusta onestà a un interrogativo così spinoso sarebbe opportuno tornare alla precisione linguistica del titolo. Il calcio, con la sua patina dorata e i suoi squallori, per lo scrittore di Montevideo è e rimane un gioco: "Gioco, dunque sono".
Un gioco che non è un gioco; un paradosso in cui c'è tutto l'essere immenso e infimo dell'uomo: "lo stile di gioco è un modo di essere che rivela il profilo proprio di una comunità e afferma  il proprio diritto alla differenza. Dimmi come giochi e ti dirò chi sei".