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" Figli dello stesso padre" di Romana Petri

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Figli dello stesso padre
 di Romana Petri
Longanesi, Milano 2013

pp. 304
cartaceo € 16,40
e-book € 11,99.

           

            Con i suoi due ultimi romanzi, Romana Petri ha battuto un colpo forte e deciso sul tavolo della narrativa italiana contemporanea. Un colpo che non l’ha scompaginata, non le ha fatto cambiare il corso o il paradigma, ma ha, quanto meno, creato lo spazio per una voce ben definita e riconoscibile. Figli dello stesso padre, come, del resto, Tutta la vita, s’avvale di una scrittura piana, immediatamente comunicativa, descrittiva, minuziosa, referenziale, fondata sul significato, più che giocata sul significante. Una scrittura che nel romanzo precedente era impreziosita da perle lessicali e sintattiche che erano il risultato di una ricerca espressiva accurata e sobria, quasi un invito a un pasto frugale fatto di alimenti genuini, rispetto ai banchetti fastosi d’altri tempi e d’altri tipi di scrittori. Qui, invece, l’impreziosimento non è dato tanto dalle molto più rare perle lessicali o sintattiche, quanto dall’aver creato tutta una serie di colorite e credibili espressioni idiomatiche appartenenti ai personaggi, ai loro legami familiari e ai loro ricordi.

            Germano e Emilio sono due fratelli figli di un sol padre ma di madri diverse. Tutta la loro vita, fino alla maturità, che è il presente narrativo del romanzo, si è svolta sotto l’influsso negativo della mancata condivisione familiare, dell’irresponsabilità di un padre incapace di garantire la solidità affettiva di cui i due avrebbero avuto bisogno nell’infanzia e nell’adolescenza (solo in parte risarcita da madri presenti e accoglienti). Un padre irresponsabile ma geniale, apparentemente anaffettivo, ma capace di scaricare saltuariamente sui due bambini vagonate di affetto e complicità tali da offrir loro momenti di pura e indiscutibile felicità. Germano, il maggiore, è morbosamente geloso e convinto che la nascita di Emilio, il minore, abbia rovinato la sua bella famigliola e inciso negativamente su tutto il resto della sua vita. I due fratelli non potrebbero essere più diversi: Germano è grande e grosso, una specie di colosso biondo e bello, Emilio è minuto e d’aspetto comune, l’uno è estroverso, ribelle, disordinato e talentuoso, l’altro riflessivo, ubbidiente, maniacalmente ordinato, arrendevole. Germano è un riconosciuto pittore che proprio durante il presente narrativo, a quattro anni dalla morte del padre e dall’ultimo tumultuoso incontro con il fratello, riceve la definitiva consacrazione artistica, Emilio è un matematico con la passione per le formiche e il loro mondo perfettamente ordinato, l’uno è un inguaribile sciupafemmine, l’altro l’esemplare maritino e paparino. Germano è nato e cresciuto a Roma, Emilio a Milano.

            Per 200 pagine il romanzo stenta a prendere il volo: su un presente narrativo statico, dopo quattro anni Emilio riceve dal fratello l’invito alla sua mostra più importante, si innesta tutta una lunga serie di ricordi dell’uno e dell’altro e delle madri di entrambi che ricostruiscono il passato dei personaggi e ne contestualizzano la situazione esistenziale. Ma qui le caratteristiche dello stile di Romana Petri rendono un cattivo servigio alla fluidità della lettura, al coinvolgimento del lettore per una vicenda tutto sommato piuttosto comune, se non banale, e all’intento di scandagliare in profondità le ragioni psicologiche di una inimicizia in fondo già inscritta nella semplice realtà delle cose. Uno stile asciutto, perfettamente calibrato e controllato, di fronte a vicende non eccezionali finisce per generare un senso d’indifferenza, se non di noia. Inoltre in queste prime 200 pagine si accentua e si rende più evidente una dei difetti che, a mio parere, percorre la narrativa di Romana Petri, che dà la sensazione di costruire personaggi e vicende “di carta”, chiusi, cioè, entro il mondo letterario cui sono destinati. Il ferreo controllo che la scrittrice esercita sulla sua materia narrativa non lascia nessun punto di fuga, non le permette di intersecarla con quanto di meno ordinabile e controllabile sta fuori del mondo romanzesco. I contorni dei personaggi e delle vicende narrate sono infrangibili (e le irriducibili differenze tra i due fratelli ne sono un esempio), non contemplano sfumature e sono esclusivamente funzionali all’assunto narrativo. Un esempio: la ricerca della scrittrice sulla psicologia, sui caratteri, i temperamenti e le posture esistenziali dei due fratelli è tutta centrata in verticale, sul rapporto padre/figli e fratello maggiore/fratello minore, nessun dato orizzontale viene a disturbare, sfumare, smentire questa ricerca. Ma, nella realtà, la formazione del tipo psicologico, del temperamento, del carattere è solo in parte (più o meno grande, a seconda delle specifiche esperienze) determinata dal rapporto verticale e familiare, in essa entrano in gioco anche traiettorie orizzontali, gli amici, gli insegnanti, il barista sotto casa, l’edicolante all’angolo…l’adorabile casualità.

Uno dei dialoghi rappresenta efficacemente questa caratteristica della scrittura di Romana Petri: Duarte, padre putativo di Germano, gli sta raccontando la storia di Emil Zàtopek, ma il ragazzo, annoiato e disincantato, lo interrompe continuamente con domande non pertinenti: «-Va bene, e allora che ha fatto ‘sto Zàtopek? – Non giocava bene a pallone, ma ogni anno la squadra…- Ma la squadra di chi? – Della fabbrica di scarpe Bata. Non mi interrompere in continuazione.» (corsivo mio).

            Quando il presente narrativo riprende a muoversi e finalmente i due fratelli tornano ad incontrarsi, tutta la narrazione si fa più dinamica, più coinvolgente e risplendono le doti stilistiche della scrittrice e la sua strabiliante capacità di tenere ben fermo il timone nascondendosi dietro la materia narrata (Romana Petri non offre via di fuga nemmeno in direzione della sua biografia o del suo temperamento, se non in enigmatici temi ricorrenti che rimangono senza seguito: cani “indemoniati”, costose telefonate internazionali e intercontinentali, donne rese forti dai valori femminili tradizionali, scrittori che muoiono di morte improvvisa e violenta…). Nessuna anticipazione, nessuna debolezza di tono fa prevedere l’evolversi della vicenda, il lettore deve seguirne la cronaca passo passo, minuto per minuto. Il lieto fine arriva quasi come un sospiro di sollievo dopo un giro tortuoso e sempre a rischio. Confermando, però, che per Romana Petri la letteratura è la rappresentazione del mondo come si vorrebbe che fosse, non com’è; una specie di risarcimento per quanto di disordinato, inspiegabile, imprevedibile, incontrollabile, volgare e entusiasmante la realtà, così com’è (e com’era il padre dei due eterni “bimbin”) infligge e offre.