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Criticalibera: Alla ricerca del tempo perduto: la vita di un romanzo. Parte quarta

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Nel 1913, mentre è impegnato nella correzione e, come al solito e come sarà fino alla fine dei suoi giorni, all’espansione dello Swann, mentre escogita un finale per il primo volume che è un’ennesima falsa pista e contribuirà non poco al generale fraintendimento delle sue intenzioni, un finale che sembra ricacciarlo nell’anfratto del nostalgico memorialista, Proust riallaccia i rapporti con l’autista che nel 1907 l’aveva accompagnato nelle visite alle cattedrali nei dintorni di Cabourg. Alfred Agostinelli, disoccupato e male in arnese, s’installa, assieme alla (falsa) moglie in casa dello scrittore. Ne nascerà un’amicizia e poi un amore travolgente, ma anche opprimente, con i due, anzi i tre, costretti claustrofobicamente a convivere sotto lo stesso tetto, in una situazione psicologica, sentimentale e materiale non molto diversa da quella che, mutatis mutandi, lo scrittore aveva già vissuto con la madre nei mesi successivi alla morte del padre e fino a quella della donna. Amore, tenerezze, espansioni sentimentali sempre disponibili, vicine, a portata di mano, ma anche senso di soffocamento, ripicche, gelosie, che con Agostinelli andranno fino al parossismo. Anche, Alfred, però, non ne può più, e scappa. Con il gruzzolo racimolato durante la convivenza con lo scrittore, s’iscrive alla scuola di aviazione di Antibes con il nome, non saprei dire se amorevole o canzonatorio, di Marcel Swann. Proust fa di tutto per riportarlo a casa: promette, spende, invia emissari per convincere la famiglia (originaria proprio di Antibes) a riconsegnarglielo. Ma alla seconda uscita da pilota al largo della Costa Azzurra, Alfred Agostinelli s’inabissa e muore affogato. Lasciando a Parigi, nella casa dello scrittore un vuoto immenso, un dolore senza fine. No, non è un romanzo, è il resoconto sintetico e veritiero (per quanto possa essere veritiero un cronachistico resoconto…) di alcuni mesi di vita di Marcel Proust. Diventerà un romanzo, in particolare La prigioniera e Albertine scomparsa, V e VI volume di Alla Ricerca del tempo perduto. Non solo: l’episodio avrà ripercussioni decisive e definitive su tutta l’opera, anche sullo Swann all’ultimo giro di bozze e prima del tragico epilogo. Tanto che non sarebbe del tutto fuori luogo parlare di un “effetto Agostinelli” sulla Ricerca. Evidentemente a Proust erano bastati quei pochi mesi di contrastata convivenza per farli riverberare nel romanzo, tanto più che potevano ricordargli la convivenza, non altrettanto contrastata, ma comunque non solo idilliaca, con la madre. E si potrebbe inoltre aggiungere che in tempi assolutamente non sospetti, in un appunto del 1908, Proust mostra di aver già immaginato una vicenda molto simile a quella che effettivamente vivrà e che sarà trasfusa nel romanzo: tra i possibili sviluppi aveva previsto che il Narratore intrattenesse presso di sé una ragazza di scarsa fortuna, e di non poterne godere per “l’impossibilità di essere felice”. In una frase incidentale, delimitata da trattini, il Narratore lega la scoperta del mondo di Gomorra, ovvero dell’inversione sessuale femminile – una delle scene più controverse di Combray – a sviluppi futuri di gelosie e sofferenze claustrofobiche, ciò che puntualmente gli succederà con Albertine. Anche in questo caso non si tratta di ammirare stupefatti un’improbabile preveggenza più o meno misteriosa, ma di rilevare che l’esperienza esistenziale, le concrete vicende biografiche creano nello scrittore delle forme, delle strutture mentali che egli trasforma, fissandole, in forme letterarie capaci di comunicarne il senso al di là delle contingenze biografiche. Forme che sono qualcosa di più e di diverso dalla elaborazione concettuale pura e semplice. Forme a-concettuali che sono lo specifico, peculiare, insostituibile modo di comunicare della letteratura, perché, pur formandosi in virtù del linguaggio e dei significati, non comunicano solo concetti, ma anche una visione del mondo unica e originale, che altrimenti rimarrebbe murata all’interno della monade leibniziana. Forme che il filosofo della fenomenologia e dell’esistenzialismo, Merleau-Ponty, proprio in riferimento a Proust, ha definito “idee sensibili”. L’antinomia dell’amore-prigione che l’autore affronterà nel V e VI volume dell’opera, come il lento formarsi dell’ordine dal caos, sono il sostrato biografico, l’esperienza individuale che la letteratura “salva” dalla contingenza, dall’oblio e dalla insignificanza.



Un altro inaspettato e repentino avvenimento caratterizza l’inizio del 1914: il gruppo NRF si pente di aver rifiutato uno scrittore tanto originale e per bocca del suo più illustre rappresentante, André Gide, fa atto di contrito ravvedimento. “Aver rifiutato questo libro [lo Swann] resterà il più grave errore della NRF – e, poiché ho la vergogna di esserne stato il principale responsabile, uno dei rimpianti, dei rimorsi, anzi, più cocenti della mia vita”. Cosa poteva sperare di meglio uno scrittore che pochi mesi prima si era visto restituire il manoscritto del libro della vita con il timbro “non pubblicabile”? Ma Marcel Proust era invischiato nelle sue terribili pene d’amore…E poi era orgoglioso e riconoscente nei confronti di Grasset (nonostante avesse pagato lui stesso le spese di edizione), perciò rifiuta le profferte della NFR e concede solo qualche brano dell’opera a venire all’omonima rivista diretta dall’ormai deferente amico Jacques Rivière.

ualcuno ricorderà che in quello stesso anno ad agosto scoppia una guerra dalla violenza inaudita, che provocherà qualche milione di morti e distruzioni mai viste prima. Ovviamente anch’essa entrerà nel romanzo, poco prima del suo epilogo, ma per il momento, oltre ai timori un po’ infantili di essere richiamato alle armi a dispetto della malattia, alla preoccupazione per il fratello Robert e per gli amici spediti al fronte, al dolore per i bollettini di morte, la guerra ha l’effetto di interrompere la pubblicazione dei volumi successivi.
Ancora un altro episodio rimonta al 1914. Minore, minimo forse, ma che per la biografia dell’autore e per il lettore proustiano potrebbe essere stato addirittura decisivo. Richiamati alle armi Nicolas Cottin, domestico ben istruito sulle rituali e maniacali abitudini dello scrittore, e Odillon Albaret, suo autista di fiducia, rimane alle dipendenze di Proust solo l’anziana moglie di Cottin, Céline, che, forse inasprita dalla lontananza del marito, mostra qualche resistenza a sottomettersi allo stravagante tenore di vita del suo “datore di lavoro” – allora si diceva più brutalmente, ma meno ipocritamente, “padrone”. Proust quasi si ritrova a contrastare i salubri consigli della madre. Per le piccole commissioni e per dare un aiuto a Céline, è assunta la giovane moglie di Odillon, Céleste Albaret. Céleste entra subito in sintonia con l’anomala situazione dell’auto-reclusosi scrittore, del nottambulo, dell’irascibile e tirannico abitudinario della scrittura. Gradatamente soppianta in tutto Céline, che di lì a poco si ritirerà nel suo paese natale, non senza strascichi polemici nei confronti della più giovane collega. Un po’ per l’età acerba (nel 1914 Céleste ha 23 anni), un po’ perché attratta dal carisma e dalla gentilezza dell’uomo, un po’ perché semplicemente, da giovane sposina provinciale, allontanata a forza dal suo sposo, non poteva trovare sistemazione migliore, Proust si trova ad aver a che fare con una domestica che si mette completamente a sua disposizione, assecondando con convinzione ogni sua stravaganza. E la ripaga inoltre con confidenze che nei decenni successivi avrebbero fatto la fortuna del più mediocre cronista culturale. Di queste confidenze e di tutto il suo rapporto con lo scrittore, la ormai anziana Céleste renderà testimonianza solo a cinquant’anni dalla morte di Proust, in un libro intitolato Monsieur Proust (trad. it. Il signor Proust, Rizzoli 1974). A fronte degli omaggi, delle rievocazioni, delle accurate ricerche biografiche, innumerevoli e spesso di grande qualità, ma anche delle approssimazioni, delle invenzioni e delle maldicenze che hanno fatto seguito alla morte dello scrittore, il cinquantennale riserbo di Céleste, che pure tante cose aveva da dire, è probabilmente il tributo più consono alla memoria dell’uno e dell’altra. Il libro che ne è risultato, oltre ad essere prezioso ed emozionante, ha la sua brava importanza in riferimento al rapporto tra biografia e scrittura – Céleste, in sostanza e senza le necessarie sfumature, conferma che lo scrittore viveva solo per il suo romanzo. Ma al di là di tutto questo, l’incontro tra Proust e Céleste è stato decisivo per il romanzo e per il lettore proustiano perché probabilmente nel 1914, al ritorno da quello che sarà l’ultimo soggiorno a Cabourg dello scrittore, la donna gli ha salvato la vita. Sul treno che li riportava a Parigi, Proust è attinto da una violentissima crisi d’asma, non ha a disposizione i suoi salvifici suffumigi, perché sono in una valigia sistemata sul vagone porta-bagagli. Lo salva la prontezza di spirito di Céleste: benché terrorizzata dallo stato dell’uomo, scende dal treno in stazione, corre al vagone porta-bagagli superando i divieti del Capo-stazione, recupera i medicinali e offre l’indispensabile sollievo al sofferente.

Che Ricerca avremmo letto se la banale dimenticanza dei medicinali in valigia avesse sottratto allo scrittore gli ultimi 8 anni della sua vita? All’improponibile e un po’ ingenua domanda, l’ultima parte di questo articolo vorrebbe abbozzare una timida risposta, proponendo una ricostruzione di quello che ho definito “effetto Agostinelli”.

Paolo Mantioni