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"Chissà cosa resiste, adesso": la poesia dell'"Attimo dopo" di Massimo Gezzi

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L'attimo dopo
di Massimo Gezzi
Luca Sossella Editore, 2009

pp. 99
€ 12.00

Stamattina la luna ha un fumo pallido intorno,
e i parabrezza sono carichi di gelo:
le mani cavate dal tepore delle tasche
si arrossano, a graffiarli. Restano quindici foglie
di castagno appese ai rami: quattordici,
quando un refolo più lungo le agita
e ne manda una in terra: ciclo concluso,
appuntamento a qualche mese per vedere
di nuovo la piccola mano riformarsi,
dov'era poco fa. Magari fosse questa
identica logica a guidarci: persa una vita
che faceva meno vuoto il nostro corso,
aspettare qualche mese, scrutare negli angoli
o sotto le lenzuola, con pazienza registrare
gli indizi di una nuova comparsa:
i capelli sul cuscino, lo spigolo dei libri sistemati
con cura, il profumo del caffè,
quando siamo ancora a letto.
E invece non c'è nulla,
e nemmeno la foglia che in aprile
tenterà la prima luce sarà uguale
a quella precedente. I rami cuciranno
i loro vuoti in silenzio, non impiegheranno
troppo tempo per capire.
(Quattordici foglie)

Succede. Di avere un libro che piace tantissimo, di averlo letto e riletto, proponendosi di recensirlo presto, e poi... Il blocco. Davanti alle citazioni scelte con cura, agli appunti presi sull'onda dell'estatica prima lettura e alle note più accurate di una seconda (non posso dire "a freddo", in questo caso). E il libro torna sul comodino: forse la prossima lettura... E cresce l'ansia di non essere in grado di scrivere una recensione adeguata a una lettura così: complessa, intensa, colta, densa, piena di rimandi inter- e intratestuali. I dubbi si moltiplicano: e se non fossi in grado di cogliere appieno il retro-senso?
Così mi è accaduto per mesi con L'attimo dopo, l'ultima raccolta poetica di Massimo Gezzi, che segue a distanza di cinque anni Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004). Dopo mesi di lettura e rilettura, è aumentata la mia ammirazione per l'opera di Massimo, e per questo cercherò di dare qualche spunto di lettura, senza la pretesa di trovare tutte le linee guida della sua poetica. 

Come è chiaro fin dal titolo, elemento centrale della raccolta è il tempo, percezione fisica e intima, visto in un caleidoscopio variegato di attimi passati, colti nella cesellatura in dissolvenza di ciò che è andato, e non tornerà:
Non torna mai niente, i gesti/ fanno in tempo a disegnarsi nel chiaro/ dell'aria, poi il sole secca il fango,/ l'uomo e la donna ritornano/ in viaggio, la corrente dei lampioni/ si interrompe del tutto (da Comandamento).
Più che esperienze vissute, L'attimo dopo raccoglie occasioni rivelate epifanicamente o perdute. E non a caso ho parlato di occasioni: Montale è presente nella cesellatura attenta dell'opera di Gezzi - lo si ritrova nelle costruzioni sintattiche e ritmiche, in una memoria lessicale accesa e consapevolmente dosata (si veda la frequenza di termini negativi), tematica (su tutte, la comunicabilità solo apparente con gli uomini che non si voltano svelata in Rendere ragione), ma anche nella connotazione stessa di "occasione", intesa sempre come situazione casuale, momentanea e totalmente imprevedibile. 
Lo stesso andamento narrativo risponde al dispiegarsi del tempo, senza strappi ma con interessanti congiunture tra la dimensione esterna e l'introiezione: non vi è mai una solo parzialmente attiva contemplazione, ma penetrazione della realtà, e talvolta oltrepassare l'oggetto permette di accedere alla riflessione. Continui passaggi esterno-interno sottolineano uno degli interrogativi costanti della raccolta: cosa va e cosa resta?, anche esplicitato:
Chissà cosa resiste, adesso (Reperti)

Se le cose restassero le cose,/ se fossero forme coerenti e ripetibili/ e non si rovinassero le sagome nel tempo (Materies aeterna)
Anche l'amore e il sentimento sono soggetti ai limiti umani, e non resta che "con un bacio perdonare il [...] limite biologico" dell'amata (in Raggio laser) e prevedere a occhi socchiusi il futuro insieme (in Loro). Ma tutto cambia, e neanche l'illusione amorosa barrica dagli intacchi del tempo, come si legge nella bellissima Quattordici foglie citata in esergo o in Una parola non detta:
Ho sempre immaginato, parla mentre guarda
un po' in tralice,
che dietro questa forza ci sia un male
da scontare, che il male
richiami altro male fino a che
non ce n'è più da stipare nelle cellule, e a quel punto,
solo allora, salta fuori
questa forza che hai tu, il tuo sguardo
diritto. Ho anche pensato, continua,
che ci sia quella congiura
del silenzio da espiare, quel gesto
con cui l'ho allontanato imponendogli
un lunghissimo dolore, mi capisci?
Ha sceso le scale del condominio
con un misto di orgoglio
e di spavento, la sua sagoma si è stagliata
contro il vetrocemento e io ne conservo
il profilo, nettissimo, potrei ridisegnartelo
in questo esatto istante. Ho sempre creduto
che scrivere mi servisse soltanto a poter dire
quello che in quel torno di secondi
andava detto: tutte le pagine che ho scritto,
capisci, in cambio di una sola parola
non detta: "ehi", "ascoltami",
"aspetta".
(Una parola non detta)
Dunque, un mondo mutevole, tra urbanità e natura, nel contrasto ormai assodato tra la transitorietà della vita umana e l'eternità della Terra. Ricorrono a tal proposito figure precarie: l'uomo, la medusa, le foglie,... La vita stessa è materia (La materialità dell'esistenza/ è cosa certa - da Venere davanti al sole), semplificabile in cellule, atomi e quark, in una concezione pienamente laica. E non resta che chiedersi
il dilemma/ che mette il segno uguale tra vita/ e non vita (Sul molo di Civitanova)

Gezzi non cerca di risolvere il dilemma vestendo i panni di un poeta-vate, ma ne coglie il fascino intrinsecabile. L'aspirazione non è quindi a una clés de lecture assulta, che trasfiguri o interpreti, ma a una poesia materica che si alimenti della stessa forza costruttiva (e de-costruttiva?) su cui si fonda il mondo. Così in Mattoni, di cui cito i versi finali:
Un mattone conta più delle parole/ che lo imitano appoggiandosi/ una sopra l'altra.// Io con la poesia vorrei fare mattoni. (Mattoni)
Per questo la poetica di Gezzi non ha mai per oggetto l'inconsistenza o l'astratto, ma nasce dall'
esistenza quotidiana, fatta di carne e vetri sporchi (Poco prima).
Così, nella raccolta si passa dal ricordo del portone scricchiolante dell'università (oserei proporre  per esperienza personale l'ateneo pavese dove Gezzi ha studiato, ma è solo un pettegolezzo) di Materies aeterna, bava di lumache e ai cadaveri dei cani in Reliquie, viaggi in macchina e in autobus con Gelsi, paesaggi e città, tra cui Roma, Civitavecchia, Grottammare e l'Oberland, amicizie e donne presenti o andate... Alle escursioni tematiche fa da contraltare uno stile sempre sorvegliato: neanche un enjambement è privo di valore semantico, il ritmo è curato come raramente accade nella poesia contemporanea, scelte metriche e foniche sono sapienti e calibrate.  Stilisticamente vario, con tessere di discorso diretto e  zone riflessive, parentesi descrittive su un tessuto narrativeggiante. Efficace l'uso della seconda persona singolare,  inclusivo nella genericità del "tu" e, al tempo stesso, distanziante nell'impersonalità (depauperando l'autore del suo privilegio tradizionale di io-lirico onnipresente e onnipensante). Particolarmente vario, il lessico è incastonato perfettamente in frasi dalla forte potenza icastica, e anche un lettore critico è portato a pensare non di rado: questi sono i "mattoni" che Massimo cercava, queste frasi che aderiscono perfettamente alla nostra sensibilità, rivelando ciò che vorremmo e non riusciamo a esprimere. Questi sono i mattoni che restano.

Gloria M. Ghioni