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Il talento del disordine

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Il talento del disordine
di Emilio Pagano
Cicorivolta Edizioni, 2010

«I miei litigi hanno il gusto di un capriccio / e la mia rivolta inizia con un'alzata di spalle».
Sono gli ultimi versi di Mondi difficili, e rappresentano bene le pagine migliori di Il talento del disordine. Nelle liriche meglio riuscite si avverte una leggerezza («il gusto di un capriccio») che si oppone a una realtà tragica ma priva anch'essa della compostezza e della serietà che abitualmente le riconosciamo e che solitamente le riconosce anche l'autore. Quando non lo fa, però, dà senz'altro il meglio di sé. Quando il suo tono abbandona le vette imponenti della Malinconia, quella con la “m” maiuscola da cantare dopo le dovute riverenze, e si fa più umilmente umano. Quando la maiuscola viene messa da parte e si racconta il disagio in forme più dimesse. Quando, insomma, il tragico si nasconde nella «sedia che ha ospitato le tue calze», e la logorante fuga del tempo si lascia narrare piuttosto che incensare o esorcizzare con parole maestose. Va detto: l'Olimpo della Sofferenza, dello spleen, del rimpianto e dei rimorsi nelle pagine di questo libro non è altro che una montagnola di terra secca che fa solo il verso alla montagna sacra. Ne riproduce approssimativamente la forma, ma sulle sue pendici corrono troppi stereotipi, troppe immagini che sono repliche e parodie involontarie delle originali.

L'immaginario poetico entro cui Pagano si muove è in buona sostanza quello del decadentismo francese. Ci sono l'amore carnale e assoluto che è mezzo per elevarsi al di sopra della «vita che lascia merda sulle scarpe», la noia che è angoscia esistenziale e via dicendo. Spesso, però, chi legge non avverte quel fremito che prova la buona riuscita di una poesia.

A mio giudizio non vanno a segno le immagini prelevate di peso, o quasi, dagli epigoni dei Rimbaud o Verlaine di turno e di fatto traslate passivamente. Sono immagini che, al di là dell'involucro, non conservano più la loro vita. «E allora rido di voi, in malora», «Perduto per sempre nella mia cenere, mio deserto infinito», accostamenti come «Io fuoco, lei paglia» e rime come sorte-morte: no, abbiamo già sentito tutto ciò, lo abbiamo letto espresso in forme molto migliori.
Quando il poeta carica su di sé il fardello del Male e quando vuole comunicarlo in versi, quasi sempre fallisce. Del resto, quanti non soccomberebbero di fronte a un peso del genere? Il nostro sa scrivere, intendiamoci. E lo si vede bene quando abbassa l'asticella e salta dopo corse meno funamboliche. È il caso di 06:00, lirica che smantella nel giro di quattro strofe i versi sovraccarichi e manierati accumulati fin qui. È con chiuse come
«Piscio. L'orinatoio è uno scrigno di dissoluzioni»
che il lettore smette di leggere, dilettandosi, e inizia a riflettere. “Zampate” che istigano alla riflessione non sono rare; se ne trovano, ad esempio, in Clandestini («Siamo arte che urta tra ossa e aorte») e in Adieu: 
«Amore, il cui universo si consuma / nella struggente protervia di un tuo neo».
Quanto alla forma, domina un'innegabile staticità. Tutti i componimenti constano di terzine e quartine, e in ciascuna di esse si esaurisce il percorso logico e sintattico intrapreso a inizio strofa.
Si registrano numerosi incipit identici nella tipologia. Una parola o comunque un sintagma minimo si collocano in apertura e, mediante il punto o i puntini di sospensione, si staccano dal resto («Pomeriggio..../ E celebrano il riposo, guaiti di quartiere»).
L'onnipresenza dei puntini di sospensione è una caratteristica del poeta, anzi un vizio, dato che questi ne abusa senza nessun ritegno. Spesso sono utilizzati quattro o cinque volte in poesie di una quindicina di versi. La loro totale assenza è quantomai rara, nonostante nella maggior parte dei casi i loro uso appaia al limite del superfluo.

In fin dei conti, è un libro che vale la pena leggere. Incostante, privo di mordente in molte sue parti, riesce anche a graffiare. Se è doveroso rimarcarne gli evidenti limiti, è altrettanto doveroso riconoscere la capacità di scrittura dell'autore quando ci apparecchia versi che si insediano nella mente del lettore e lì rimangono a lungo.
 
Marco Giorgerini