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Tra favola, racconto, epos: "L' isola di Arturo" di Elsa Morante

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L'isola di Arturo (1957)
di Elsa Morante
Einaudi

pp. 402
€ 13 (cartaceo - prezzo riaggiornato al 2022)
€ 6,99 (ebook)



Al centro de “L’isola di Arturo” sta la dimensione della favola, del racconto, dell’epos. Elsa Morante ha sempre reso l’affabulazione, il gusto dell’invenzione narrativa elementi chiave del suo scrivere. Tutto questo emerge da ogni singola parte di questo romanzo con il quale, non a caso, l’autrice intendeva rivaleggiare con grandissimi modelli del passato quali ”L’Orlando Furioso”, nel progetto di dar vita ad una costruzione romanzesca totale, definitiva e grandiosa. E sebbene in vesti diverse, si potrebbe azzardare che anche ne “L’isola di Arturo” non manchino “Le donne, i cavalieri, l’arme , gli amori…”. 
L’adolescenza di Arturo Gerace è raccontata nei toni di un’impresa avventurosa, di una conquista quotidiana di un posto fra gli eroi della Storia, di un’ardua lotta per l’affermazione del proprio valore. A creare questo clima di fascinosa avventura concorre soprattutto la figura del padre idealizzato Wilhelm che periodicamente torna a Procida per poi lasciarla misteriosamente diretto chi sa dove. 
Il figlio lo immagina come il più grande dei condottieri e fantastica sperando, un giorno, di poterlo aiutare a compiere le sue grandi imprese. È da qui che parte la crescita di Arturo, da un atteggiamento di devozione-emulazione nei confronti di un padre scostante, ma anche dal rapporto con la sua isola, terra prediletta, luogo incontaminato, rigoglioso, pieno di colori e sapori mediterranei. 

Elsa Morante scandisce nelle otto parti in cui si divide l’opera il percorso di maturazione del giovane protagonista, raccontandone la vita sin dalla nascita, ma concedendo spazio di gran lunga più ampio agli anni dell’adolescenza, oggetto privilegiato della sua “indagine”. 
Arturo cresce soprattutto tramite l’incontro con Nunziata, matrigna-coetanea, verso la quale il ragazzo nutre sentimenti contrastanti fino poi a scoprirsi di lei innamorato e, ancora, tramite la scoperta dell’omosessualità del padre e dei suoi torbidi viaggi al Penitenziario di Procida. 
L’amore per Nunziatella e la caduta del mito paterno (nonché l’iniziazione sessuale con una giovane isolana) sanciscono il passaggio dalla fanciullezza alla virilità, e questo non può che essere suggellato da un allontanamento finale dall’isola e un avvicinamento alla Storia, fino ad allora esclusa dal romanzo (la partenza per la guerra). 

Le tematiche che varrebbe la pena approfondire sarebbero tantissime: una fra tutte, il contrastato rapporto uomo-donna e la concezione di quest’ultima nel romanzo. Fin dalle prime pagine la Morante rivela un’esplicita misoginia: Wilhelm, Romeo, Arturo e tutti gli abitanti di Procida considerano le donne non sono inutili, ma quasi dannose. Questo si lega alla scelta di temi come quello dell’omosessualità o a determinati episodi-chiave come quello della morte per parto che accumuna la madre di Arturo e la cagnetta Immacolatella. 
Sarà Nunziata a suggellare il passaggio di Arturo dall’amore infantile per la madre a quello adolescenziale per la donna e lei diverrà la prima (ed unica) donna del romanzo alla quale Arturo non rivolge parole di disprezzo (non a caso, spesso alla sua figura si lega quella della Vergine Maria). 
Le componenti maschili e quelle femminili entrano comunque in continua dialettica, non solo nel soggetto del romanzo ma nella scrittura stessa dell’autrice che metteva su carta il suo “antico desiderio di essere un ragazzo” e che viveva in quegli anni una vera e propria “felicità” di raccontare, vestendo i panni del ragazzo Arturo (che, è bene puntualizzarlo, è voce narrante del romanzo). 

Questo era solo uno dei motivi per i quali l’autrice nutriva una reale predilezione per il romanzo, del quale curò meticolosamente tutte le tappe compositive dando precise disposizioni in merito alla veste che avrebbe dovuto assumere. Da qui le particolari caratteristiche tipografiche, lo sforzo di costruzione e soprattutto la fitta trama di intertestualità che lo compenetra. I capitoli I, VI, VII, VIII si aprono con delle citazioni poste in esergo tratte da autori dall’autrice prediletti quali Saba, Penna, Rimbaud e Mozart, che stanno a sottolineare alcune delle parti più significative del romanzo. Ma non finisce qui: l’autrice si garantisce un posto di rilievo all’interno della sua opera “preferita” dedicando il componimento di apertura a Remo Natales, che altro non è che un anagramma di Elsa Morante. Questa lirica si conclude così: “Fuori del limbo non v’è eliso”, frase simbolo della condizione di Arturo che vive quello stato di quasi precoscienza che è la fanciullezza in un microcosmo separato, atemporale e fuori dalla Storia come l’isola di Procida, territorio prediletto per indagare questa condizione (che alla Morante stava particolarmente a cuore, come si evince da altri romanzi come “Menzogna e Sortilegio” o il progetto incompiuto “Nerina” che assieme a “L’isola di Arturo avrebbe dovuto costituire il dittico “Due amori impossibili”). 

In anni di neorealismo in cui i giovani che popolavano le pagine della letteratura erano Agostino, Riccetto e i “ragazzi di vita” pasoliniani la Morante sceglie di raccontare l’adolescenza tramite la fiaba, il sogno, raccontandoci tante storie fuori dalla Storia e proponendoci un romanzo che poco ha a che fare con le coeve esperienza italiane, un ‘opera tradizionale, ottocentesca nel senso più completo del termine, ma allo stesso tempo novecentesca vista la presenza, sebbene velata, di autori come Pasolini e Freud. E il linguaggio rispecchia tutto questo facendosi affabulazione pura, gusto per le analogie e i parallelismi, traducendosi talvolta nel mito per la sua “universalità”.


Claudia Consoli