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The Hollow Crown: dalla tetralogia shakespeariana un intenso adattamento televisivo

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O for a Muse of fire, that would ascendThe brightest heaven of invention,A kingdom for a stage, princes to actAnd monarchs to behold the swelling scene!Then should the warlike Harry, like himself,Assume the port of Mars; and at his heels,Leash'd in like hounds, should famine, sword and fireCrouch for employment. [...]O, pardon! since a crooked figure mayAttest in little place a million;And let us, ciphers to this great accompt,On your imaginary forces work.

Shakespeare, fonte inesauribile di ispirazione da cui trarre nuove rappresentazioni, rivisitazioni televisive e cinematografiche, progetti culturali. Le passioni di quell’uomo che sembra egli stesso nascere direttamente dalla penna del Bardo, grazie alla loro universalità non smettono di essere attuali e di fornire materiale per mezzo del quale riflettere sull’indole umana, vizi, virtù, sentimenti. È il teatro del mondo, in cui fintanto che esisterà l’uomo sarà possibile rintracciare nell’opera shakespeariana quella stessa vita percepita dai suoi contemporanei, perché le passioni universali che muovono i suoi personaggi sono in fondo le stesse, immutate, di ogni tempo e luogo.
Cambiano ambientazioni, interpreti e letture, ma l’opera del drammaturgo inglese intriga registi – teatrali, ma sempre più spesso anche cinematografici e televisivi – e attori che con esso si misurano, segno anche di un interesse da parte del pubblico che non sembra conoscere crisi, soprattutto intorno ad alcune opere più spesso di altre oggetto di reinterpretazione. Tra i progetti più ambiziosi si colloca la miniserie del 2012 firmata – ça va san dire – Bbc, The Hollow crown, realizzata in occasione delle olimpiadi culturali inglesi: trasposizione televisiva della tetralogia shakespeariana di alcuni tra i drammi storici più intensi dell’autore: Richard II, Henry IV (diviso in due parti) ed Henry V. L’”enrieide” come è comunemente denominata, in cui dominano alcune delle tematiche più frequenti nei drammi storici del Bardo e che concorrono a rendere le opere ancora attualissime: tradimenti, congiure, intrighi, guerre civili, riflessioni sul potere e sulla natura della sovranità, nemici interni ed esterni, amicizia, conflitto generazionale, onore e patria.


Tre adattamenti televisivi estremamente precisi nel rispetto del testo shakespeariano, ognuno di essi visibile anche singolarmente come progetto autonomo ma il cui valore naturalmente è amplificato all’interno del progetto complessivo. Ad inaugurare la miniserie, Richard II, nel quale tutto il peso dell’opera è retto dai due protagonisti: Richard, il sovrano in carica, interpretato da Ben Whishaw (già noto, tra gli altri, per il ruolo di Keats nel film biografico Bright star) e Henry Bolingbroke (Rory Kinnear) figlio del Duca di Lancaster e futuro re d’Inghilterra con il titolo di Henry IV. Due personalità estremamente differenti, come marcata è – a tratti fino all’eccesso – la recitazione stessa dei due interpreti: serio, solido, quasi imperturbabile Bolinbroke, quanto eccentrico, sopra le righe, sfuggente, capace di repentini cambi d’umore ed ambiguità il sovrano di Whishaw. Storia di intrighi e congiure, il dramma si apre con una disputa tra Bolinbroke e Thomas Mowbray (James Purefoy), Duca di Norfolk, in seguito alla quale – gli animi non placati spinti fino a sfidarsi in duello – la condanna reale all’esilio per entrambi.
Provato dal dolore per l’allontanamento del figlio, il Duca di Lancaster cade presto nella malattia e, alla sua morte, il sovrano prende repentinamente possesso degli averi dello zio al fine di rimpinguare le casse dello stato. La notizia dell’esproprio tuttavia, turba i nobili sostenitori dei Lancaster i quali complottano per aiutare Bolinbroke – nel frattempo fatto segretamente ritorno dall’esilio – a riprendere possesso dei propri beni e, soprattutto, decisi a destituire Richard ponendo lo stesso Henry sul trono d’Inghilterra. La macchina di intrighi, lotte per il potere ed inganni è messa in moto e non basterà lo spazio di un solo dramma a risolverla.

“This royal throne of kings, this sceptered isle,
This earth of majesty, this seat of Mars,
This other Eden, demi-paradise,
This fortress built by Nature for herself
Against infection and the hand of war,
This happy breed of men, this little world,
This precious stone set in the silver sea,
Which serves it in the office of a wall
Or as a moat defensive to a house,
Against the envy of less happier lands,-
This blessed plot, this earth, this realm, this England.” 

Nello scontro tra Richard ed Henry – il quale in verità, almeno all’inizio appare piuttosto riluttante - , risiede il contrasto tra due forme di sovranità: investitura dall’alto, quella rappresentata da Richard, fermamente convinto del proprio diritto a regnare per volere divino, verso l’investitura originata dal basso, dai sostenitori di Henry che a tratti appare quasi una pedina nelle mani di nobili ambiziosi e scaltri. Un sovrano che si erge a divinità, per il quale né le leggi di Dio né quelle degli uomini sembrano avere importanza e sempre più solo nella sua lotta, contro un “semplice” uomo che forte della ragione del proprio diritto arriva fino al trono, in uno struggente confronto tra il re destituito e colui che sta per prenderne il posto. Ma tra deliri e profezie, neppure la figura di Henry appare priva di ambiguità e se il sangue dei nemici non macchia direttamente le mani del nuovo re, la colpa di aver segretamente desiderato tali azioni resta comunque sospesa tra lui e il concreto artefice.


Inevitabilmente il regno di Henry IV sarà segnato da intrighi, lotte per il potere, guerre civili e insinuazioni sulla legittimità ad indossare la corona. Nel secondo dramma (diviso in due parti, come già nel lungo testo shakespeariano) a prestare anima e corpo al sovrano è un eccezionale Jeremy Irons che caratterizza il personaggio di nuove affascinanti sfumature, in un’interpretazione che restituisce appieno la complessità della creatura shakespeariana. È un sovrano in lotta contro nemici interni che mettono in discussione il suo diritto al trono e stringono nuove pericolose alleanze contro quello che, agli occhi di molti, è in fondo considerato un usurpatore e non un sovrano legittimo. Gli stessi uomini che hanno condotto Bolinbroke sul trono potrebbero infatti essere gli artefici della caduta di Henry IV.
Ma il plot e la riflessione sul potere si arricchiscono in questo dramma di nuove sfumature date dal confronto generazionale nel difficile rapporto padre-figlio tra il sovrano e il primogenito, il principe Hal, interpretato da uno straordinario Tom Hiddleston che nell’universo shakespeariano da prova di muovesi sempre perfettamente a proprio agio. I contrasti sorti con le famiglie un tempo alleate e ora pronte a prendere le parti del giovane, irruento Henry Percy (un talentuoso Joe Armstrong) impegnano il re in una guerra civile che appare ormai inevitabile e, contemporaneamente, spingono al confronto tra due giovani di cui solo il nome pare accomunarli.

Yea, there thou mak’st me sad and mak’st me sinIn envy that my Lord Northumberland Should be the father to so blest a son— A son who is the theme of honour’s tongue, Amongst a grove the very straightest plant, Who is sweet Fortune’s minion and her pride— Whilst I, by looking on the praise of him See riot and dishonor stain the brow Of my young Harry. O, that it could be proved That some night-tripping fairy had exchanged In cradle clothes our children where they lay, And called mine Percy, his Plantagenet!

Fiero, assetato di potere e vendetta, valoroso combattente Henry Percy, dedito al vizio e a frequentazioni inappropriate il giovane affascinante principe. Presto dimenticati i frequenti ammonimenti da parte del padre, la delusione che così evidente traspare nelle parole e negli sguardi che rivolge a quel figlio sconsiderato, che trascorre il proprio tempo lontano dai rigidi doveri di corte, per trastullarsi fra bevute e compagnie discutibili in taverne di infima categoria.
Due mondi così differenti: la corte, con l’opprimente peso del potere che va sempre più indebolendo il sovrano, e due giovani entrambi mossi da passioni e pieni di vita, l’uno intenzionato a vivere lontano da ogni responsabilità, l’altro pronto a lottare per assecondare le proprie ambizioni. Inevitabile lo scontro tra i due, fortemente voluto dal principe Hal desideroso di redimersi agli occhi del padre sconfiggendo colui che rappresenta una minaccia per la corona e l’orgoglio, una lotta dalla quale solo un vincitore può sopravvivere:

Why then I see
A very valiant rebel of the name.
I am the Prince of Wales; and think not, Percy,
To share with me in glory any more.
Two stars keep not their motion in one sphere,
Nor can one England brook a double reign
Of Harry Percy and the Prince of Wales.

Sono momenti di notevole intensità, per un dramma in cui la battaglia è scontro reale, sul campo, di armi e sangue, ma anche del cuore, tra un sovrano che – soprattutto nella seconda parte – soffre sempre più il fardello del potere, il peso per i continui intrighi da contrastare e la delusione per un figlio che disonora il proprio nome e il ruolo che un giorno, forse, sarà tenuto a ricoprire.

Can'st thou, O partial sleep! give thy repose
To the wet sea-boy in an hour so rude;
And, in the calmest and most stillest night,
With all appliances and means to boot,
Deny it to a king? Then, happy low, lie down!
Uneasy lies the head that wears a crown.

Lo stesso figlio che in lotta contro il padre e contro se stesso, diviso tra i doveri che il proprio rango comportano, la lealtà al padre e sovrano e l’incapacità di affrancarsi da quegli amici che ne allietano la gioventù. Una compagnia di piccoli furfanti e bevitori, in cui spicca la straripante figura di Falstaff (Simon Russel Beale), imbroglione, ladruncolo, bugiardo, personaggio capace di passare da momenti di estrema comicità ad attimi di altrettanto intensa malinconia. 
Messi a tacere i nemici, riconquistati onore e fiducia del re, alla morte del padre il principe ereditario è pronto ad abbandonare il nome e tutto ciò che Hal rappresenta e diventare Henry V. Nell’intenso monologo che precede la morte del re, il mutamento si compie “in scena”, di fronte al pubblico che difficilmente potrà rimanere indifferente, fino alla scena dell’incoronazione in cui ogni legame con il passato è spezzato, mentre nuovi giochi di potere insidiano il trono.

A concludere la tetralogia, Henry V, in cui Hiddleston regge la scena e, nessuno ce ne voglia, riesce grazie a questa più recente versione a mettere in ombra la precedente trasposizione con Kenneth Branagh la quale, vista a distanza di così tanto tempo, patisce di un fare recitativo in parte superato, per lasciare il posto in quest’ultima versione ad un’interpretazione altrettanto intensa ma più umana, di un re divenuto simbolo che Hiddleston riporta tra gli uomini, senza celarne dubbi ed ambiguità.
Ad aprire la scena un momento di intensa emozione, i funerali di quel giovane re la cui stella, nemmeno la morte potrà offuscare. 
Quest’ultimo capitolo è la celebrazione del sovrano che messi da parte vizi e debolezze giovanili è perfettamente calato nel ruolo per cui è nato. Ogni legame con le vecchie compagnie è stato reciso, gli ultimi, deboli, echi di quel tempo passato sono presto messi a tacere dall’urgenza della guerra – stavolta sul suolo francese – e dal desiderio di dimostrare il proprio valore. Lo spettro di Falstaff – personaggio che, in realtà, non compare in scena -, i vecchi compagni rinnegati, l’allegra atmosfera delle taverne del dramma precedente, appaiono come immagini fugaci a gettare un velo sulla retta figura del nuovo sovrano, che colpisce per l’apparente freddezza con cui facilmente si è staccato da quelli che un tempo chiamava amici, per divenire il degno re d’Inghilterra.
Ora, che i nemici interni sono stati messi a tacere, Henry combatte la sua guerra in Francia nel nome di un antico diritto al trono e guida i suoi soldati contro l’esercito nemico, incitandoli alla battaglia con parole accorate, che sembrano rivolte direttamente ad ognuno di loro chiamato a versare il proprio sangue in Francia:

Once more unto the breach, dear friends, once more;
Or close the wall up with our English dead!
In peace there's nothing so becomes a man
As modest stillness and humility:
But when the blast of war blows in our ears,
Then imitate the action of the tiger;
Stiffen the sinews, summon up the blood,
Disguise fair nature with hard-favoured rage;
Then lend the eye a terrible aspect.

è l'immagine di un re soldato, che combatte nel fango, infonde coraggio nelle truppe, indaga in segreto gli umori dei propri sudditi, in uno dei drammi storici più noti e rappresentati del panorama shakespeariano. Un testo in cui le immense immagini sapientemente evocate dal verso fremono per uscire dallo spazio angusto del palcoscenico dove, l’unico elemento ancora puramente teatrale, resta il Coro che pure in questa versione è perfettamente calato, voce fuoricampo (a differenza della già citata versione con Branagh in cui Coro era un bizzarro personaggio che qui e là compariva come sulla scena) e solo alla fine legata allo sguardo partecipe e penetrante di uno dei personaggi che fin da principio ha seguito la vicenda.
C’è spazio anche per l’amore (romantico e meno impacciato della versione di Branagh, ma sempre caratterizzato dal contrasto tra due mondi e due culture che faticano a comprendersi), seppur funestato dall’ombra della fine, in un dramma immenso che chiude questa straordinaria miniserie alla quale seguirà, il prossimo anno, una seconda selezione tra i drammi storici del Bardo.

A dimostrazione, ancora una volta, che l’uomo creato da Shakespeare, le sue passioni e i suoi tormenti, non smetteranno mai di ispirarci.