«In questa storia in cui nulla è inventato, anche a costo di fare schifo» (p. 208), l'autore Alcide Pierantozzi racconta la sua quotidianità dopo il peggioramento della sua condizione psicologica. Negli anni tante sono state le diagnosi (disturbo bipolare, spettro dell'autismo, dissociazione dell'io,...) e ancora di più i farmaci che girano nelle giornate del protagonista. E questi portano, manco a dirlo, numerosi effetti collaterali, che rendono difficile concentrarsi, studiare, scrivere, ma anche vivere da soli e gestirsi.
Così, nelle prime pagine de Lo sbilico, troviamo Alcide che, quarantenne, ha lasciato Milano ed è tornato nella casa di famiglia abruzzese, dove cerca e riceve il sostegno della madre malata di tumore, mentre il padre è soprannominato il Negazionista, perché non sembra capire o accettare la gravità delle condizioni del figlio. Nella vita Alcide scrive, ma anche questa attività è messa a dura prova dalla sua salute, che richiede un grande stato di attenzione, visite regolari dallo psichiatra e dallo psicoanalista, ma anche l'elasticità di non sapere al mattino come ci si sveglierà.
Questo, come comprensibile, ha ridotto il numero dei legami e spesso troviamo un Alcide molto solo, in parte rassegnato alla compagnia inevitabile della malattia e costretto a un overthinking che sfocia nell'ipocondria, nelle ossessioni, in schemi che si ripetono senza sosta. La scrittura non ha utopici «progetti di salvezza», ma perlomeno «riesce ad arginare i pensieri per il tempo della frase. Lascio al futuro la libertà di fare progetti su di me» (p. 195). E noi lettori stringiamo tra le mani un resoconto che ha spesso un andamento degno della scrittura diaristica, fluviale, che porta con sé lo stato d'animo della mano che su carta ha vergato questi pensieri.
Letteratura e famiglia a parte, cosa gli resta "fuori", nel mondo esterno? Un corpo che allena costantemente, ma che non viene mai abbracciato da altri; un'attività sessuale non condivisa, relegata alla masturbazione; una quotidianità pilotata dalla malattia, dall'ottindimento dei farmaci, dalla marjuana, da episodi di emarginazione sociale, dall'incomprensione degli sconosciuti.
Episodi narrativi – che raccontano le difficoltà quotidiane nel presente e che affondano nel passato – si alternano a riflessioni più egoriferite di un soggetto inevitabilmente ripiegato su sé stesso, alle prese con sintomi che, per quanto minimi, innescano il terrore di malattie possibili, ma anche con un'autoanalisi impietosa, dai chiari risvolti depressivi.
Quel che colpisce è che anche in questi momenti di maggiore crisi, l'autore ricorre a parole che rendono la prosa rutilante, letteraria e ricercata, a cominciare dai tanti verbi e sostantivi inizianti per s- in funzione deprivativa (a cominciare dallo "sbilico", neoformazione che campeggia nel titolo). Tasselli di letteratura, d'altra parte, affiorano nel modo di vedere la vita del protagonista, costantemente avvinto dalla lettura e dall'esempio dei grandi autori.
Non valuterò i contenuti, perché trovo arduo speculare sullo stato di salute altrui e sulle profonde motivazioni che possono portare a scrivere e a pubblicare un'opera come Lo sbilico. Viceversa, plaudo a uno stile che sa passare dalla concretezza corrosiva del realismo più spinto alla letterarietà più alta, in una coesistenza felice, mai forzata. Dunque, Lo sbilico non è un libro che rileggerei per la storia che racconta – davvero tanto privata –, quanto per come lo fa, con una consapevolezza linguistica e lessicale rara.
GMGhioni
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