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Pillole d'autore - Roland Barthes

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La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi d'una estrema solitudine. Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?), ma non è sostenuto da nessuno; esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi (scienze, arti, sapere). [dalla prefazione di R. Barthes]
Quando in un'intervista (contenuta ora in R. Barthes, La grana della voce. Interviste 1962-1980, Einaudi 1986) chiesero a Roland Barthes (1915-1980) come si collocasse nel panorama letterario dopo aver scritto Frammenti di un discorso amoroso (1977, Edizioni di Seuil), l'autore ribadì di ritenersi un "uno molto banale, dal dossier ben noto", in qualche misura inclassificabile. Con quest'opera, riproposta piuttosto recentemente da Debora Lambruschini su CriticaLetteraria (clicca qui per l'invito alla lettura), Barthes si propone di sfatare gli stereotipi del discorso amoroso, in frammenti che riprendono idee filosofiche, letterarie, psicanalitiche, passando per citazioni e aneddoti personali che redono l'opera una congerie di generi, dalla struttura da un lato calibratissima e dall'altro continuamente variata. L'ordinamento alfabetico dei diversi temi trattati scandisce gruppi di frammenti, e garantisce al lettore una certa comodità d'orientamento. 
Per la sua unicità, per l'acume e la sempreverde linfa di quest'opera, s'è deciso di proporre alcuni passi per la vostra domenica. Il consiglio, sentito questa volta più di altre, è di cercarvi l'opera intera.

(Edizione di riferimento: Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino 2001)


 1. (sotto la voce "attesa")
Vi è una scenografia dell'attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell'oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita. [...] L'essere che io aspetto non è reale. Come il seno materno per il poppante, "io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui" (Winnicott): l'altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l'ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino: l'attesa è un delirio. 

2. (sotto la voce "comportamento")
E' futile ciò che in apparenza non ha e non avrà conseguenze. Ma da me, soggetto amoroso, tutto ciò che è nuovo, tutto ciò che può turbare, viene accolto non come un fatto, ma come un segno che bisogna interpretare. Dal punto di vista amoroso, il fatto diventa coneguente perché subito si trasforma in segno: è il segno, non il fatto, che è conseguente (a causa delle sue ripercussioni). L'altro mi ha dato questo nuovo numero di telefono: che significato può avere questo segno? Voleva essere un invito ad approfittarne subito, per diporto, o soltanto in caso di bisogno, per necessità? La mia stessa risposta diventerà un segno che l'altro interpreterà fatalmente, scatenando, fra me e lui, un tumultuoso intrecciarsi di immagini. Tutto ha un significato: con questa affermazione, io mi freno, divento preda del calcolo: m'impedisco di godere.
Talvolta, a furia di deliberare su "niente" (questo è quanto direbbero gli altri), finisco con lo sfiancarmi; a questo punto, con un ultimo guizzo, come uno che sta per annegare e cerca con un colpo di tallone di risalire in superficie, tento di prendere una decisione spontanea (la spontaneità: grande sogno: paradiso del discorso, forza, delizia): telefonagli, visto che ne he hai voglia! Ma invano: il tempo amoroso non consente di mettere sulla stessa linea l'impulso e l'atto, di farli coincidere: io non sono l'uomo dei piccoli acting-out; la mia follia è misurata, non si vede; è subito che io ho paura delle conseguenze, di ogni conseguenza: ciò che è "spontaneo" è la mia paura - la mia indecisione.

3. (sotto la voce "dichiarazione")
Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l'altro. E' come se avessi delle parole a mo' di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole. Il mio linguaggio freme di desiderio. Il turbamento nasce da un duplice contatto: da una parte, tutta un'attività del discorso assume con discrezione, indirettamente, un significato unico, che è "io ti desidero", e o libera, lo alimenta, lo ramifica, lo fa esplodere (il linguaggio prende gusto a toccarsi da solo); dall'altra, avvolgo l'altro nelle parole, lo blandisco, lo sfioro, alimento questo sfioramento, mi prodigo per far durare il commento al quale sottometto la relazione.

(Parlare amorosamente, significa dissipare senza limite, senza soluzione di continuità; vuol dire praticare un rapporto senza orgasmo. Forse esiste una forma letteraria di questo coitus reservatus: il preziosismo). 

4. (sotto la voce "esilio")
Nel lutto reale, è la "prova di realtà" a mostrarmi che l'oggetto amato ha cessato di esistere. Nel lutto amoroso, l'oggetto non è né morto né lontano. Sono io a decidere che la sua immagine deve morire (e questa morte, io potrò addirittura arrivare a nascondergliela). Per tutto il tempo che durerà questo strano lutto, dovrò portare il peso di due infelicità tra loro contrarie: soffrire per il fatto che l'altro sia presente (e che continui, suo malgrado, a farmi del male) e affliggermi per il fatto che egli sia morto (se non altro, che sia morto quello che io amavo). Cosicché mi angoscio (vecchia abitudine) per una telefonata che non arriva, ma nello stesso tempo devo dirmi che questo silenzio è, in ogni caso, inconseguente, perché io ho deciso di non aspettarmi più niente.[...]
(Il punto più sensibile di questo lutto è che mi tocca perdere un linguaggio - il linguaggio amoroso. D'ora innanzi, non ci saranno più i "Ti amo"). 

5. (sotto la voce "gelosia")
Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero d'esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.

6. (sotto la voce "io-ti-amo")
Passato il momento della prima confessione, il "ti amo" non vuol dire più niente; esso non fa che riprendere in maniera enigmatica, tanto suona vuoto, l'antico messaggio (che forse quelle parole non erano riuscite a comunicare). Lo ripeto senza alcuna pertinenza; esso esorbita dal linguaggio, divaga: ma dove? [...] Il verbo amare non esiste all'infinito (se non per artifizio metalinguistico): il soggetto e l'oggetto formano un tutt'unico con la parola che viene proferita, e l'io-ti-amo va inteso (e qui letto) all'ungherese che, in una sola parola, suona szeretlek, come se l'italiano fosse una lingua agglutinante (ed è proprio di agglutinazione che si tratta). La benché minima alterazione sintattica disgrega questo blocco unico; esso è per così dire al di fuori della sintassi e non si presta ad alcuna trasformazione strutturale; esso non ha alcuna equivalenza con i suoi sostituiti, anche se il loro accostamento potrebbe dare lo stesso significato; posso dire per giorni interi io-ti-amo senza forse mai poter passare a "io l'amo": sono restio a far passare l'altro per una sintassi, una predicazione, un linguaggio. 

7. (sotto la voce "lettera")
Cosa vuol dire, "pensare a qualcuno"? Vuol dire: dimenticarlo (senza oblio, la vita non sarebbe possibile) e risvegliarsi spesso da questo oblio. Per associazione d'idee, molte cose ti riportano al mio discorso. "Pensare a te" non vuol dire niente altro che questa metonimia. Poiché in sé, questo pensiero è vuoto: io non ti penso; ti faccio semplicemente tornare alla mente (a misura che cresce in me l'oblio di te). E' la forma (il ritmo) che io chiamo "pensiero": non ho niente da dirti, senonché questo niente è a te che lo dico. 

8. (sotto la voce "pazzo")
Da cent'anni a questa parte, si ritiene che la follia (letteraria) consista in questo: "Io è un altro": la follia è un'esperienza di spersonalizzazione. Per me, soggetto amoroso, essa è invece esattamente il contrario: ciò che mi rende pazzo è il fatto di diventare un soggetto, di non potermi impedire di esserlo. Io non sono un altro: questo è ciò che constato con sgomento. 


Nota introduttiva, selezione e trascrizione dei passi a cura di Gloria M. Ghioni