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Il tempo di un giorno per dire chi siamo: il nuovo affresco corale di Paolo Di Stefano in "Una giornata meravigliosa"

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Una giornata meravigliosa
di Paolo Di Stefano
Feltrinelli, agosto 2025
pp. 208 

€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

C’è qualcosa di scandaloso nella normalità, e Paolo Di Stefano lo sa bene. Nel suo nuovo romanzo, Una giornata meravigliosa (Feltrinelli, 2025), l’autore siciliano – già giornalista – decide di sabotare il tempo, di trasformare ventiquattr’ore comuni in un dispositivo narrativo esplosivo, ticchettio compreso. Le ore sono segnate in grassetto, la narrazione è frammentata – anche graficamente – accentuando la sensazione che qualcosa, da un momento all’altro debba succedere. Eppure, non succede nulla, di fatto. Per questo motivo si fa prima a parlare di chi compare, immaginandoli pronti a sfilare su un immenso tappeto rosso della quotidianità: un muratore che sogna l’amore di una cantante, una donna che registra un video prima di sparire, un ragazzino che trova un portafoglio e non sa se restituirlo o tenerselo, un uomo che ha appena vinto al Superenalotto ma ha paura di essere felice. Ultimo, ma non per importanza, un misterioso passante invisibile, dagli occhi stralunati e l’orecchio finissimo, che ha la “presunzione” di suggerirci come osservare.

I suggerimenti sono ben accetti, se si considera che Di Stefano scrive come se fosse un regista con una cinepresa impazzita: zooma su un dettaglio irrilevante, poi taglia, cambia punto di vista, spia dal buco della serratura della realtà, dilata e restringe i minuti, manipola le singole percezioni e ribadisce più volte pensieri casuali. Una scelta dettata – probabilmente – anche dal suo occhio di giornalista, abituato a guardare il mondo in una maniera tutta sua, che vuole condividere volentieri.

Di pari passo, la sua lingua non consola, ma scava. È precisa, eppure piena di scarti, impura come una città al tramonto. Le voci dei personaggi si intrecciano in un rumore collettivo che sa di semafori, televisori accesi, speranze sbriciolate come crostini in una minestra che difficilmente migliorerà. Scelte stilistiche difficili da progettare e sostenere a lungo, ma Di Stefano ci riesce perfettamente, mantenendo l’impatto sul lettore dalla prima all’ultima pagina, raggiungendo in alcune parti – soprattutto quelle dell’osservatore misterioso – picchi di poeticità, a tal punto da far venire voglia di una seconda rilettura.

Tra le varie suggestioni suscitate e i richiami ad altri grandi nomi della letteratura, i suoi personaggi fanno pensare un po’ ai microcosmi di Benni, a quel modo di dipingere le persone per reazioni, piuttosto che per caratteristiche, garantendo loro un posto fisso nel cuore dei lettori.

Non è una lettura facile per chi ama trame snelle e risoluzioni nette, ma chi avverte il richiamo delle voci miste, chi accoglie il disordine della vita, chi accetta che “meraviglioso” sia una posizione dello sguardo — troverà in questo libro suggestione, tristezza e, soprattutto, uno specchio potente del nostro presente. Il rischio era altissimo: raccontare tutto senza raccontare niente. Ma Di Stefano riesce a far esplodere la forma stessa del romanzo, smontandola pezzo per pezzo, grazie al dispositivo narrativo di cui prima, che, dopo tanto ticchettare, agisce senza farsi annunciare.

Non ci sono capitoli, ma respiri. Non c’è una morale, ma una domanda: quante vite passano accanto a noi in una sola giornata, senza che le vediamo davvero? Utilizzando la meraviglia come inganno, l’autore riesce dove molti falliscono: restituire dignità all’insignificante.

È, di fatto, un romanzo contro il romanzo, se si considera il suo rifiuto di intrattenere, costringendoci a guardare — e a riconoscerci — nel caos discreto del quotidiano.

Da un punto di vista tecnico, il romanzo è costruito con notevole rigore: la scansione oraria conferisce coerenza, le transizioni sono fluide, la coralità resta leggibile e si percepisce anche un sottile tensione narrativa, che fa voltare le pagine senza accorgersene.

Il rischio, semmai, è che la molteplicità di voci finisca per disperdere l’attenzione o che alcune storie restino troppo abbozzate, alimentando la curiosità del lettore, che spera nel passante invisibile, nelle sue parole, sempre misurate.

Ma è una scelta consapevole: la vita, come il giorno, non concede chiusure perfette.

In cambio, il lettore riceve un’esperienza di immersione totale, dove la narrazione si trasforma in sguardo condiviso, in una seduta spiritica collettiva del presente. E alla fine della giornata — meravigliosa, certo — resta solo una consapevolezza: la vita non si racconta, si intercetta.

I lettori in cerca di trama lo odieranno. Chi, invece, è alla ricerca di una verità, una qualsiasi, lo adorerà.

Giovanna Scalzo