di Antonella Mollicone
Editrice Nord, agosto 2025
pp. 429
€ 20,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Se pigli l'abitudine di mostrare zeze e cortesie in ogni circostanza, a un certo punto fare la brava diventa una costrizione. Allora con la voce apprezzi pure le pietre, col cuore disprezzi il mondo intero. E, alla fine, fuori sembri un angelo, dentro ti sazi solo di maledizioni contro tutti quelli che ti calpestano. E arrivi a ritirarti da tutto, pure dalla carne tua. Per questo, qui facciamo uscire tutto quello che proviamo. Pure quello che ci fa vergogna per come è cattivo. Soprattutto quello. Così vediamo i guai, i nodi che ci stanno dietro. Ognuna parte da là, dal grumo più nero, per ritrovarsi l'anima sana. Ognuna come può. Però, ci aiutiamo tutte». (p. 58)
Non tutto ciò che sostiene il mondo è scritto nei libri di storia. C’è un sapere sommerso che si trasmette senza clamore, un’energia che attraversa i secoli e continua a trasformare il presente. La "femminanza" è questo: il femminile che si fa origine, custode e promessa. Il femminile, quando diventa "femminanza", non è più soltanto identità, ma forza originaria che genera memoria e custodisce futuro. Evoca il lavoro silenzioso delle mani, il tramandarsi di saperi, la complicità che nasce fra donne quando il mondo esterno non le ascolta. È un termine che non definisce, ma apre: dice resistenza e fragilità, dice amore e fatica, dice quella forza che non ha bisogno di clamore per esistere.
Al cuore del romanzo pulsa "la Cerchia": un gruppo di donne che si ritrova in un piccolo paese del Lazio meridionale, la Rocca. Non un semplice ritrovo, ma un luogo quasi sacro, dove antichi saperi vengono tramandati in silenzio: il gesto delle mani che lavorano, il profumo delle erbe e dei decotti, la parola che consola e quella che confessa, il rito che dà senso al dolore. In questo spazio sospeso, fatto di solidarietà concreta e di conoscenza segreta, le donne di età e condizioni diverse trovano forza e dignità, riconoscendosi l’una nell’altra.
Tra le molte voci emergono quelle di Camilla Maletazzi, figlia di una famiglia “di rango”, segnata dal peso di lutti e silenzi, e di sua figlia Viola, che cresce in un’Italia diversa ma ancora intrisa di attese e vincoli che vorrebbero relegare il femminile entro confini stretti. Per Camilla, la Cerchia diventa la possibilità di trasformare il dolore in parola e di scoprire che l’amore non è soltanto prigione, ma occasione di vita nuova. Viola, invece, incarna il desiderio di emancipazione, l’anelito allo studio, alla libertà, all’autonomia, ma deve misurarsi con un mondo che ancora la immagina moglie, madre, obbediente, compatibile con un destino già scritto.
Mollicone sceglie di non affidarsi a colpi di scena fragorosi, ma al respiro sommesso della quotidianità. La sua forza narrativa sta nella capacità di restituire l’intensità delle vite ordinarie, nei dolori che si depositano come sedimenti, nella potenza della parola orale, nel groviglio dei segreti che attraversano le famiglie e nelle tradizioni che non possono essere semplicemente rimosse. L’ambientazione stessa — la campagna aspra, la povertà, le superstizioni, la guerra che irrompe — non è sfondo ma corpo vivo del racconto, presenza materica che accompagna i destini individuali e li radica nella storia collettiva.
Ciò che rende La femminanza un romanzo vivo è la sua capacità di restituire non tanto una trama, quanto un respiro. La scrittura di Antonella Mollicone non cerca mai il colpo di scena artificioso o la suspense costruita a tavolino: preferisce seguire il ritmo dell’esistenza quotidiana, che scorre lentamente, con improvvisi strappi e lunghe attese. È in questa lentezza che si rivela la sostanza della storia, perché proprio lì il dolore si deposita, il segreto si sedimenta, la memoria prende voce. La lingua che Mollicone adopera ha la consistenza della terra: è concreta, radicata, capace di evocare odori, suoni, gesti, senza bisogno di eccessivi ornamenti. È una lingua che non ingentilisce ma restituisce, che non estetizza ma rende visibile. In essa si muove l’energia delle donne della Cerchia, figure mai ridotte a stereotipo. Camilla, Viola, Peppina e le altre non sono maschere esemplari ma creature complesse, piene di contraddizioni, capaci tanto di fragilità quanto di forza, di resa e di ribellione. Anche i personaggi maschili, pur restando spesso sullo sfondo, non sono meri antagonisti: incarnano piuttosto la pressione di un mondo che, più che nei singoli gesti, si rivela nelle strutture profonde del patriarcato.
Il centro narrativo però non sta soltanto nei personaggi, ma in quella forma di sorellanza che la Cerchia rappresenta. È qui che la narrazione acquista una dimensione politica e filosofica insieme: la solidarietà femminile non è esaltata come utopia idealizzata, bensì mostrata come pratica quotidiana di resistenza, di cura reciproca, di costruzione di senso. In un contesto in cui la violenza e la miseria rischiano di annullare la singola esistenza, lo stare insieme diventa non solo consolazione, ma atto rivoluzionario, capace di produrre futuro.
Anche la tradizione, lungi dall’essere rappresentata come un ostacolo monolitico, appare nel romanzo in tutta la sua ambivalenza. Le superstizioni, i rituali, le erbe medicinali e i racconti tramandati sono al tempo stesso catene e risorse: elementi che legano al passato ma che, se ascoltati con attenzione, rivelano una sapienza arcaica, quasi filosofica, in grado di nutrire un’idea diversa di modernità. È in questa tensione tra vecchio e nuovo, tra continuità e rottura, che le protagoniste si muovono, cercando di scrivere una storia che non sia mera ripetizione né sterile emancipazione, ma faticosa trasformazione.
Il merito più profondo di La femminanza sta dunque nella sua capacità di far emergere, sotto la superficie narrativa, una riflessione più ampia: che la vita delle donne non sia mai soltanto individuale, ma sempre intreccio di corpi, di voci, di memorie collettive. E che in quell’intreccio, fragile e potente al tempo stesso, si nasconda la chiave per comprendere non solo la condizione femminile, ma la condizione umana nella sua interezza.
A partire da La femminanza, diventa impossibile non guardare al presente. Le storie che abitano la Cerchia, i silenzi tramandati di madre in figlia, le ferite che non trovano voce, rimandano a ciò che ancora oggi segna la vita delle donne. Camilla, con il peso dei suoi segreti, ci ricorda che l’invisibilità del dolore femminile non appartiene soltanto al passato: quante sofferenze, quante violenze, quanti fallimenti vengono ancora oggi occultati sotto il velo del dovere, del conformismo, di un pudore che diventa gabbia. La guarigione, allora come ora, non passa solo attraverso percorsi individuali, ma nel riconoscimento reciproco, nella possibilità di raccontare, di condividere, di spezzare la catena del silenzio.
Viola, con la sua tensione verso l’indipendenza, mostra come la libertà femminile continui a scontrarsi con muri invisibili. Anche nel nostro tempo, in cui le leggi parlano di parità, la realtà è fatta di pressioni sottili, di aspettative familiari e sociali che cercano ancora di ricondurre le donne a ruoli stabiliti: moglie, madre, custode di un equilibrio che non è il loro. Il romanzo ricorda che l’amore autentico non è mai gabbia e che ogni legame che impone la rinuncia alla libertà non è amore ma ferita. È un messaggio che resta cruciale oggi, in una società che spesso scambia la dipendenza per dedizione.
Al centro resta però la forza della solidarietà femminile. La Cerchia è sorellanza vissuta nella concretezza: in un presente dominato da individualismo e competizione, questo modello suona come un monito. Resistere non significa soltanto lottare contro un sistema, ma anche creare spazi dove riconoscersi, proteggersi, valorizzarsi. La sorellanza è politica e intima insieme: un gesto quotidiano che ha la forza di cambiare i destini.
Eppure non mancano, dentro al romanzo come fuori, le ombre del patriarcato. Gli uomini non sono raffigurati come figure monolitiche, ma il peso della struttura resta evidente: violenza, prepotenza, omertà. È una realtà che, nonostante campagne e movimenti globali, continua a segnare il nostro tempo. Il patriarcato non vive soltanto nelle leggi o nei ruoli dichiarati, ma nei comportamenti interiorizzati, nelle attese invisibili, nei compromessi quotidiani che ancora chiedono alle donne di sacrificare parti di sé. Ogni gesto di ribellione, ogni parola che rompe il silenzio, ogni desiderio affermato diventa, come nel romanzo, un atto politico.
Così La femminanza non resta confinata nella memoria di un’Italia passata, ma si rivela specchio del presente. Leggere il romanzo di Mollicone è come entrare in un giardino segreto che cresce fra pietre antiche: le erbe selvatiche, le rose selvatiche, i rovi, il sole, la pioggia, il canto delle donne che lavorano a capo chino ma con la schiena eretta nella dignità del proprio essere. È una storia che insegna che la "femminanza" - quella vera - non è un attributo fragile, ma una marmorea energia, silenziosa, che sopporta, che attende, che resiste, che guarisce.
Alla fine, il romanzo chiede: che cosa possiamo fare con i nostri silenzi? Con le nostre tradizioni? Con i segreti che custodiamo? Forse il rimedio più profondo è costruire relazioni che permettano alle ferite di diventare memoria, alle storie di tessere comunità, all’amore di liberare e non di costringere. E mentre chiudi il libro, restano le parole non dette, le mani che non hai stretto, le storie che ancora aspettano d’essere raccontate — e con esse, un invito a non smettere di cercare, di chiamare, di essere "femminanza" dove si può.
Serena Palmese
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