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"Una questione di famiglia" di Claire Lynch: la banalità del male, quarant'anni fa come oggi

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Una questione di famiglia
di Claire Lynch
Fazi Editore, 2025

Traduzione di Velia Februari

pp. 209 
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Ci sono romanzi che parlano di segreti familiari e altri che raccontano discriminazioni storiche; nonostante il titolo, Una questione di famiglia di Claire Lynch riesce a fare entrambe le cose, unendo memoria privata e ingiustizia collettiva in un’unica, intensa narrazione. Ambientato su due piani temporali - il 1982 e il 2022 - il libro racconta la vicenda di Dawn, giovane madre che si scopre innamorata di Hazel, una sua vicina di casa, e di sua figlia Maggie, cresciuta da sola col padre, credendo che la madre l’avesse abbandonata per un altro uomo. Ma dietro a quella narrazione, così netta e dolorosa, si nasconde un’altra verità: Dawn è stata privata della custodia a seguito della denuncia del suo ex marito, perché la sua relazione lesbica veniva considerata “immorale” e “pericolosa” per il benessere della bambina.

Lynch maneggia con estrema precisione il tema dell’omofobia istituzionale. Non si tratta di aggressioni di strada o insulti plateali, ma di una violenza legale e sociale radicata nelle strutture stesse del potere: tribunali, assistenti sociali, leggi e norme non scritte. Dawn non perde la figlia per un errore giudiziario isolato, ma perché l’intero contesto culturale è convinto, che una madre omosessuale non possa essere una “vera” madre: talmente convinto da non aver nemmeno bisogno di urlare, di alzare la voce. È in questo intreccio di pregiudizio e normalità che il romanzo rende tangibile la banalità del male: nessun antagonista caricaturale, nemmeno Heron, il padre di Maggie, ma un sistema tentacolare che agisce per inerzia, compiendo un’ingiustizia devastante con la stessa freddezza burocratica con cui si firma un modulo o si chiude un fascicolo.

Il romanzo alterna il presente di Maggie, che lentamente ricompone la verità, e il passato di Dawn, che rivive la ferita di un distacco imposto. Questo doppio movimento permette al lettore di vedere quanto le narrazioni familiari possano essere plasmate dal silenzio, se non dalle vere e proprie bugie. Ogni ricordo è contaminato: quello di Maggie, alimentato da un padre che ha raccontato una versione comoda dei fatti, per quanto dolorosa; quello di Dawn, spezzato dal bisogno di sopravvivere e dalla mancanza incolmabile di sua figlia. Lynch non cerca mai il colpo di scena fine a sé stesso: ogni rivelazione nasce organicamente dal flusso di memorie, conversazioni, vecchie lettere e documenti, e il lettore percepisce il peso concreto che la verità porta con sé.

Dal punto di vista stilistico, la scrittura è limpida ma mai piatta. Lynch sceglie un registro sobrio, capace di restituire sia l’intensità emotiva dei momenti più drammatici sia la quieta normalità della vita quotidiana, quella in cui il dolore non scompare ma si sedimenta, filtrando in ogni gesto. Questa scelta narrativa trattenuta, quasi pudica amplifica l’effetto complessivo: il romanzo non urla, ma resta addosso.

Una questione di famiglia è, alla fine, un libro sulla possibilità e sulla necessità di riscrivere la storia delle proprie origini. Non cancella l’ingiustizia subita, ma mostra come recuperare i legami perduti possa restituire dignità e, forse, pace. È anche un avvertimento sottile: i pregiudizi non appartengono solo al passato, e la loro forma più pericolosa è proprio quella che appare ragionevole, condivisa, persino protettiva. Lynch ci invita a guardare negli interstizi della nostra quotidianità per riconoscere quelle ingiustizie che, proprio perché normalizzate, rischiamo di non vedere più. E pertanto di replicare.

Marta Olivi