Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 176
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Ci sono momenti in cui la vita, come un’aria troppo stretta, comincia a stridere contro le pareti della nostra identità. Non accade con clamore: si insinua, si inarca nei gesti quotidiani, si riflette in uno specchio che non riconosciamo più. Chi saremmo se fossimo cresciuti altrove, sotto altre mani, con un’altra lingua a plasmare la nostra voce interiore?
A volte, una crepa basta a far sgorgare l’altro da sé, quello che da anni tace e osserva: non un gemello, ma un’eco. Non una follia, ma una lucidità che si manifesta in modo obliquo, come una musica che non segue più il pentagramma. In un tempo fatto di disorientamento e di silenzio, quando le mappe emotive sembrano consumate, diventa urgente disimparare. Riconoscere che alcune delle strutture che ci hanno costruito erano anche le sbarre della nostra gabbia. E allora non resta che andare. Fuggire, fluttuare, trasfigurarsi.
Solo in quel movimento erratico, tra le città, le lingue, le stagioni, può forse affiorare una verità imperfetta ma viva: quella che non si impone, ma si rivela. Come un riflesso inatteso. O come un cavallino meccanico che trotta su un banco di Atene, e dice tutto senza dire nulla.
È in questa zona opaca e febbrile dell’identità che prende forma la narrazione di Agosto blu. Un romanzo che non si limita a raccontare, ma scompone, interroga, attraversa. Deborah Levy ci accompagna lungo un itinerario spezzato e risonante, dove le tappe non corrispondono a luoghi, ma a stati d’animo, rivelazioni intermittenti, fratture interiori. È il viaggio di chi, per salvarsi, deve disimparare il linguaggio ricevuto e trovare una voce che sia finalmente propria — incerta, imperfetta, ma comunque viva.
Levy è nota per una scrittura che sfuma i confini tra autobiografia e narrativa, tra forma estraniante e immersione sensoriale: una prosa che intreccia pensiero filosofico, memoria interiore e corpo vivente. In Agosto blu, narra la storia della pianista Elsa M. Anderson, una virtuosa che a trentaquattro anni interrompe in pubblico il suo concerto suonando qualcosa di “altro”, un suo frammento interiore che rompe l’esecuzione tradizionale del Concerto n. 2 di Rachmaninov. Dopo il gesto di rottura sul palco viennese, Elsa si ritira dal mondo della musica ufficiale e comincia un percorso solitario che la porta attraverso una serie di città: Atene, dove acquista tinture per capelli e incontra per la prima volta la sua misteriosa sosia; Parigi, dove si rifugia in un appartamento vuoto; Londra, dove cerca di riallacciare legami con una figura materna distante; e infine la Sardegna, dove accetta di tenere lezioni private a un giovane studente, facendosi sorprendere da un modo diverso di ascoltare e insegnare.
Elsa ha iniziato a disfarsi dentro il proprio corpo; non si era incarnata in chi era, né in chi stava diventando. Durante tutto il racconto è alla ricerca di una nuova composizione, un linguaggio vitale da costruire oltre grammatica e vincoli. Ha consapevolezza che il doppio non è demonio né angelo: è una figura vivace che regge uno specchio, mostrando un possibile mondo dove vivere davvero. Non altrove, ma dentro Elsa: un altro io che pulsa con desiderio di libertà, imperfezione, vitalità.
Mi spogliai e lasciai i vestiti sulla sabbia. Non ero a mio agio con il mio corpo, nemmeno al buio. Non era stato amato, forse da sempre. Nessuno lo toccava da tempo. Non sapevo cosa farne quando non era in conversazione con un pianoforte. [...] Cosa fare se il desiderio non coincide? O non è sufficiente? Ci si allontana, diceva il mio doppio. Il desiderio non è mai imparziale. (pp. 50-51)
Centrale nel romanzo è la tensione tra forma e intuizione. Elsa ha vissuto nell’ombra di un’idea di perfezione musicale, appresa e interiorizzata come codice di sopravvivenza. Ma quella perfezione l’ha silenziata. La musica, in Agosto blu, non è mai solo melodia: è linguaggio esistenziale, condanna e via di fuga. Il momento in cui Elsa abbandona la partitura rappresenta la frattura fra l’io performativo e l’io desiderante, fra ciò che è stato costruito per lei e ciò che potrebbe finalmente emergere come autentico.
Il rapporto con il corpo, spesso filtrato attraverso metafore sensuali e simboliche, occupa un posto centrale. Il corpo di Elsa, a lungo oggetto disciplinato della scena musicale, comincia a reclamare spazio, movimento, piacere, imperfezione. C’è un desiderio di incarnarsi nuovamente, di riscrivere il proprio sé non attraverso la mente, ma attraverso i sensi, attraverso la discontinuità del sentire.
La scrittura di Levy è cesellata e ipnotica, attraversata da sinestesie, dislocazioni, ripetizioni intenzionali che producono un senso di sospensione quasi onirica. Il tempo narrativo è un fluido che si piega e si tende, spezzato da visioni, slittamenti e deviazioni. È una prosa che chiede di essere letta non con lo sguardo lineare del lettore ordinato, ma con l’attenzione mobile di chi accetta di farsi condurre fuori rotta.
Agosto blu è anche, implicitamente, un romanzo sull’eredità. Non tanto quella biologica, ma quella invisibile e potentissima dei ruoli, delle aspettative, dei linguaggi appresi. Levy non scava nel trauma con una logica terapeutica, ma con una sensibilità artistica e filosofica: suggerisce che il dolore non va guarito, ma riconosciuto come parte di un processo di attraversamento. In questo senso, il libro diventa un dispositivo per pensare la soggettività come un campo di forze, un corpo in costante riscrittura, più vicino alla danza che alla confessione.
Agosto blu non chiude cerchi, non offre soluzioni narrative né pacificazioni. La sua forza sta proprio nell’inquietudine che lascia emergere, nella sua capacità di evocare zone di transizione, umanissime e irrisolte. Levy ci restituisce l’immagine di una protagonista che smette di obbedire non per ribellione, ma per necessità esistenziale: perché ogni fedeltà all’identità imposta è un tradimento sottile del proprio sentire. Così, come il mare che dà titolo al romanzo – cangiante, insondabile, mai davvero nostro – la scrittura di Levy ci invita a vivere nella fluidità, accettando che essere fedeli a sé stessi, a volte, significhi perdersi per potersi riconoscere.
Serena Palmese
Social Network