in

«Dietro un personaggio c'è spesso una persona; magari non una persona precisa, ma frammenti di storie vere da “maneggiare con cura”»: intervista a Paola Cereda su "L'unico finale possibile"

- -

 


Ci sono scelte di vita tutt'altro che scontate, che portano a conseguenze che mai avremmo creduto tanto rivoluzionarie. In L'unico finale possibile (Bollati Boringhieri, maggio 2025) di Paola Cereda una coppia di trentenni, Leonardo e Gioia, ospita un minore non accompagnato in Italia, Momogol. Come sia arrivato a Torino Momo è già di per sé sconvolgente: un finto procuratore calcistico gli promette un contratto prestigioso con una squadra di serie A, in cambio di soldi. Tutto il villaggio senegalese di Momo – non solo la sua famiglia – aiuta il ragazzino, nutrendo in lui grandi speranze, ma la storia non è così semplice: in Italia, Momo resta completamente solo, senza soldi e senza conoscere la lingua. Per caso incontra Gioia che, davanti al suo spaesamento totale e alla mancanza di letti nel centro dove lavora lei, decide di portare Momo a casa. Inizia così una convivenza complessa in cinquanta metri quadrati di appartamento; non sono solo tre persone ad abitarci, c'è molto di più: ci sono sogni inespressi e frustrati, aspettative di vita diverse, culture differenti che non si conoscono ancora,... Questo non è solo un romanzo che parla di ospitalità; è anche un romanzo che parla d'amore, della complessità delle relazioni, e di tanto altro, di cui abbiamo deciso di parlare con l'autrice nella lounge del Circolo dei Lettori al Salone del Libro di Torino. 

***

Parto da una domanda banalissima ma a mio parere necessaria: quando e come sei venuta a conoscenza del fenomeno del football trafficking, tra i temi principali del romanzo? 

A me piace pensare che siamo immersi in un mondo di storie. Da quando nasciamo fino a quando moriamo, la cosa che facciamo sempre è raccontarci storie, scambiarcele e crearne di nuove. Una domanda che mi fanno spesso è: tra tutte le storie che ci sono, com'è che a un certo punto una diventa così prepotente da chiedere di essere scritta? Perché continua a ritornare. Ci sono frammenti di storie che incrociano la tua strada o forse sei tu che quando diventi più sensibile a un tema, inizi a trovare indizi da tutte le parti. Per me con la storia di Momogol, con L'unico finale possibile, è andata proprio così. Per lavoro mi occupo di storie, sia nella scrittura sia nel teatro comunitario, che è una forma di teatro che coinvolge tante persone di diversa età e nazionalità. Da molti anni ci troviamo tutte le settimane e, per un periodo, all'interno di questo gruppo ci sono stati anche numerosi minori stranieri non accompagnati. 

E cosa hanno portato nel gruppo? 

Le loro storie, le loro capacità e le passioni, a cominciare dal calcio, che era una costante. Per alcuni di loro il calcio era un gioco, per altri qualcosa di più. Ho incontrato altri ragazzi al di fuori del gruppo per i quali il calcio era un tema da evitare, perché doloroso. Poi sono incappata in un post che raccontava di un saggio dedicato proprio al football trafficking: i numeri erano altissimi, perché si parlava di 60.000 minori solo in Europa caduti nella rete del football trafficking nell’ultimo decennio. 

Che numeri! 

E pensa che, scavando, ho scoperto che questi sono numeri al ribasso. Allora mi sono chiesta come mai un fenomeno così importante e che coinvolge minori in tutto il mondo sia così poco sotto i riflettori. Ci sono solo pochi saggi e qualche documentario, e allora perché non accendere la luce sul tema attraverso il romanzo?! 

Una luce calda, permettimi di dirlo, perché c’è una grande indagine psicologica sui personaggi e, più li si conosce, più è impossibile tenersi fuori dalla storia. In più pagine mi sono chiesta se il calcio per Momo sia soltanto una possibilità di riscatto o se rappresenti anche una passione autentica. Te lo chiedo, perché in alcune pagine ho avuto l’impressione che Momo vedesse soprattutto il calcio come un'occasione per arricchirsi, tornare a casa e migliorare le condizioni sociali di sua mamma e delle altre persone al villaggio. 

L'unico finale possibile
di Paola Cereda
Bollati Boringhieri, 6 maggio 2025

pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

VEDI IL LIBRO SU AMAZON
Hai ragione, il significato del calcio per il protagonista cambia durante il romanzo. Quando è in Senegal, Momo è un ragazzo tra gli altri e il campo da calcio è un po’ la piazza del paese... Molti villaggi africani spesso sono agglomerati di case che si sviluppano lungo un'unica via, non ci sono piazze. I luoghi di incontro sono altri. Se c’è una decisione importante da prendere, gli anziani si ritrovano attorno al grande albero, al baobab; nel villaggio di Momo i giovani si ritrovano nel campetto di calcio, ogni giorno, fino a quando il buio non li costringe a tornare a casa. Il campo di calcio è “la piazza”. Gli adulti si ritrovano a bordo campo per vederli giocare ma soprattutto per discutere e chiacchierare. Per Momo che ancora vive al villaggio, il calcio è un modo di mettersi in relazione con i suoi coetanei, di divertirsi e sfogare la sua grandissima fisicità. Tutto cambia quando arriva un falso procuratore che gli promette una carriera da calciatore professionista e possibili provini in Europa. In quel momento la passione si mischia al sogno di diventare un grande calciatore, e su ciò si innesta la spinta migratoria che lo porta a partire prima per Dakar e poi per l’Europa. Il sogno di Momo, ahimè, si carica della responsabilità di avere successo e diventare qualcuno anche per “aiutare chi resta”. E questo succede spesso nella migrazione: chi parte ha un sogno che non è solo suo, è un sogno collettivo condiviso con i familiari che restano. 

Tra l’altro il villaggio aiuta anche economicamente Momo a partire… 

Sì, i soldi che vengono chiesti a Momo e alla sua famiglia dal falso procuratore sono così tanti che, per racimolare la somma dovuta, la madre deve ricorrere all’intera comunità. Dopotutto “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”, no? Allo stesso tempo Momo si sente investito della responsabilità grande di ripagare quel debito. Ciò si incrocia con un tema che mi ha fatto molto pensare mentre scrivevo il romanzo: che cos'è l'adolescenza. 

Sembra facile e invece è una grande domanda… Sei riuscita a darti una risposta? 

L’adolescenza non è solo un periodo della vita, è anche un costrutto sociale, profondamente influenzato dal mondo circostante. Per Momo esistono i bambini ed esistono gli adulti. Al villaggio era un bambino che, dopo la circoncisione, è diventato adulto: si è sentito tale e tale e stato considerato dalla famiglia. In Senegal Momo già lavorava: nel momento in cui si ritrova in Italia, chi lo accoglie gli dice che è un adolescente e lui non sa nemmeno cosa vuol dire. È partito lasciandosi alle spalle i suoi affetti più grandi, per diventare un professionista del pallone e guadagnare un bel po’ di soldi da mandare alla famiglia. Quando si rende conto di essere caduto nella rete del football trafficking, è troppo tardi per tornare indietro: deve fare i conti con la perdita del sogno. È chiamato a ricominciare, ma non sa da che parte iniziare. 

Impresa difficilissima, così come affrontare un vero e proprio cambiamento di identità. Si capisce molto bene nel libro questo spaesamento che Momo vive nelle cose di tutti i giorni. Non sa più chi è quando arriva in Italia e non gli è facile convivere con Leonardo e Gioia, che decidono di ospitarlo nel loro bilocale. Ho apprezzato tanto il fatto che non hai voluto in alcun modo banalizzare il tema dell'ospitalità. 

Sicuramente l’accoglienza è un’esperienza fortissima, bella e allo stesso tempo difficile e complessa. L’accoglienza trasforma, e infatti il rapporto della coppia che ospita Momo cambia nel corso del tempo. 

Come ci hai lavorato? 

Ho costruito attorno a Momo un nuovo mondo di relazioni, mettendo al centro l’amore come sentimento in continuo mutamento. La famiglia forma e deforma, qualsiasi essa sia, e nel caso del romanzo è una famiglia un po’ atipica: Leonardo e Gioia sono due trentenni un po’, diciamo così, lenti nei loro processi di crescita. Se lei è molto convinta delle sue scelte, Leonardo – che è anche la voce narrante – è un ragazzone al quale piace stare nel mezzo. Non a caso è stato un ex portiere di serie D che ha dovuto fare i conti con il fatto di non essere mai riuscito a diventare un professionista. Un po’ come Momo. La vita di Gioia e Leo si complica quando decidono di ospitare Momo che arriva e occupa uno spazio importante in una casa di due stanze e di cinquanta metri quadrati... Ed è questo “reciproco ingombro” che rende la relazione tra i tre un rapporto, spero, veritiero, in quanto complicato, in costruzione. 

Complicato anche per le differenze culturali… Mi ha colpito molto il passaggio in cui mostri quanto persino ottenere il diploma di terza media assuma un valore completamente diverso: Leonardo e Gioia spingono Momo a studiare; per lui, questo è invece completamente inutile. In fondo anche dare valore alla scuola, al diploma, è proprio della mentalità occidentale. Ma è giusto imporlo agli altri? 

C'è proprio un contrasto di visioni, come se i personaggi a volte fossero sintonizzati su frequenze diverse, tipo FM e AM. Ciascuno alza il volume ma la sintonia è diversa e quindi non ci si sente, non ci si capisce. Gioia e Leo accolgono Momo e provano ad amarlo secondo i loro parametri culturali di riferimento. Momo non diventerà un campione: be’? Che problema c’è? Potrà sempre studiare, trovarsi un lavoro... Momo invece si chiede: perché devo prendere un diploma? E studiare in una lingua che non sarà mai la mia, dato che non so nemmeno se mi fermerò in Italia? E perché non posso diventare un campione e devo accontentarmi di giocare “per divertirmi”? Non è questo il motivo per il quale Momo ha lasciato la madre e i suoi fratelli. 

Un’altra grande differenza culturale riguarda il compleanno: non ci avevo mai pensato, dando per scontato con leggerezza che tutti dessero importanza al giorno di nascita, ma non è così… 

Nella cultura occidentale il compleanno in un certo senso ci definisce, è una data in cui ci riconosciamo, è scritta sui documenti che ci accompagneranno per tutta la vita. Per Momo invece è un'invenzione. Prima di partire per l’Italia, non aveva i documenti, glieli procura il falso procuratore in previsione del viaggio in Europa. La data che compare sul passaporto è stata scelta a caso da chissà chi: in realtà Momo non conosce il giorno del suo compleanno perché al villaggio non lo festeggiava. Anche molti dei ragazzi che facevano parte del gruppo teatrale di cui ti parlavo prima risultavano nati tutti il primo gennaio! Quando Momo sta per compiere diciotto anni, Gioia gli vuole organizzare una festa ma lui non capisce che cosa ci sia di così importante da festeggiare. Quasi non vorrebbe diventare maggiorenne, visto che legalmente questo passaggio implica un ulteriore cambiamento del suo status e dei suoi diritti. 

Veniamo alla giovane coppia che ospita Momo: ho apprezzato tanto il fatto che Gioia lavori nel sociale, dunque lei è già abituata ad aiutare persone in difficoltà, ma questo non le risparmia una grande fatica per entrare in sintonia con Momo. Trovo questo molto verosimile e lontano da qualsiasi visione edulcorata della realtà. 

Sì, anche per Gioia, già abituata per lavoro ad alcune realtà più disagiate e all’aiuto dell’altro, è difficile accogliere Momo in casa e gestire la nuova relazione a tre. Si rende conto che “siamo buoni, ma mai fino in fondo” e ciò la ferisce, anche se, narrativamente parlando, tale ferita è un aspetto estremamente interessante. Se indossi il ruolo di “buono” nella vita di tutti i giorni, prima o poi ti ritroverai a fare i conti con la natura umana, che è complessa, fatta di opposti, contrasti e ombre. Gioia attraversa tutto questo. 

E arriva anche a chiedersi come dimostrare amore, visto che Momo non vuole gli abbracci. 

Sì, lui li rifiuta. Non ci è abituato e soprattutto non li accetta da Gioia. Al villaggio era immerso nell’amore, verso la sua terra, i suoi fratelli e sua madre: tale amore occupa uno spazio importante nel romanzo. È profondo e fatto di sacrifici e fatiche. È un amore “di radici” e di terra, solido come il baobab. 

Volere un abbraccio da Momo significa forzare la mano, mentre prima di entrare a gamba tesa in un’altra cultura dando per scontato che valgano certi gesti o comportamenti a livello universale, occorre informarsi, conoscere... Anche per questo ho amato il valore che hai dato alla diversità nel romanzo, e che possiamo riassumere in quel “noi non siamo uguali” che pensa a un certo punto Leonardo. Essere diversi non è un male, anzi!, riconoscerlo è basilare. 

Sì, la differenza diventa un valore da riconoscere, e difficile da gestire. Quando ho deciso di scrivere di Momo, mi serviva una “posizione terza”, una voce narrante che stesse un po’ nel mezzo, quindi non ho scelto Gioia bensì Leonardo che, non a caso, è un ex portiere. Una voce forse diversa da quella che ci saremmo potuti aspettare. 

Perché? 

Innanzitutto, perché davanti alla scrittura di un romanzo è bello porsi delle sfide: un io narrante maschile, di un’età diversa dalla mia, con un carattere completamente diverso... Ho preso spunto da un incontro davvero particolare. Mentre già pensavo alla storia, ero in viaggio in Ladakh – nell'India settentrionale, al confine con il Pakistan. In quel un posto sperduto, con alte montagne e pochissima gente, ho fatto un incontro incredibile: un ragazzo italiano che, da giovanissimo, aveva giocato in serie D come portiere e aveva avuto il sogno di diventare un professionista del pallone. Aspirava alla serie C e una volta era stato avvicinato da un falso procuratore che gli aveva promesso un contratto da professionista in cambio di soldi. Ho quindi messo in parallelo i due episodi: Leonardo e Momo, due ragazzini che, in epoche diverse e in aree geografiche lontane – Italia e Senegal – vengono attratti dal miraggio di realizzare il loro sogno calcistico. Per entrambi ciò ha un prezzo: un prezzo economico per Leonardo, un prezzo molto più salato per Momo, che fa scelte di vita che diventano irreversibili. 

Leonardo, con una carriera calcistica sostanzialmente fallita, si è riservato il diritto di fare un “retropassaggio”. Ma le sue condizioni sono davvero completamente diverse da quelle di Momo. Lui non può fare un retropassaggio: tornare al villaggio sarebbe solo un fallimento, o no? 

Leonardo è riuscito a tornare indietro, a concedersi il “diritto di recesso”: non è diventato il professionista che voleva essere, ma comunque si è fatto una vita, si è costruito la sua affettività, ha il suo lavoro, le sue nuove passioni. Invece Momo non può tornare in Senegal, può solo andare avanti ma in un mondo che non lo vuole. 

Venendo ai passi metaletterari presenti nel romanzo, ho apprezzato l’attenzione che Leonardo dà all’ascolto per poter scrivere una storia. 

Nell’ultimo dei racconti contenuti nella raccolta Questa è l'acqua, Foster Wallace apre con un aneddoto. Due pesci nuotano nell'acqua; arriva un terzo pesce che chiede: “ehi ragazzi, com'è l'acqua?”. Gli altri due si guardano ed esclamano: “ma cos'è l'acqua?”. Ci fa riflettere sul fatto che non sempre siamo consapevoli di essere immersi costantemente in un mare di storie; per scrivere dobbiamo recuperare questa consapevolezza, spesso connessa al provare meraviglia davanti alle vicende che ci circondano. Prima di scrivere con la penna, col computer, occorre avvicinarsi alla storia o, meglio, ai frammenti di storia che troviamo sul nostro cammino. Recuperarli e dare loro un senso ci permette di costruire una delle possibili versioni della storia da restituire al lettore. L’unico finale possibile ha un piano di metanarrazione che procede nello stesso modo: all’inizio è organizzato per frammenti giustapposti. Ci sono frammenti della vita di Momo, Leonardo e Gioia che, piano piano, si intrecciano in una storia unica. Quando il filo narrativo sembra finalmente unico, ecco che le cose cambiano nuovamente prospettiva. Un po’ come nella vita. 

E andiamo verso l'unico finale possibile, che non anticiperemo per non fare spoiler. Diciamo solo che scegli la via più difficile e meno scontata. L’hai pensato così fin dall’inizio? 

Guarda, mi sono interrogata tanto sul finale di questo romanzo perché non doveva essere banale. Ci ho lavorato per crearne uno “particolare” (come vedranno i lettori) ed era l'unica possibilità che mi sembrava convincente. Dal punto di vista narrativo, mi sono divertita a giocare con parole e struttura. 

Nella scrittura di questa storia ti sei posta dei limiti etici? 

Sì, lo faccio sempre, perché dietro un personaggio c'è spesso una persona; magari non una persona precisa, ma frammenti di storie vere da “maneggiare con cura”. Sono psicologa e, ai tempi dell’università, mi sono formata con una docente esperta di narrazione e paesaggio. Lei portava spesso noi studenti fuori dalle aule per farci fare esperienza “sul campo”, tra la gente, e ci chiedeva di raccogliere storie di vita da far confluire in diversi musei del territorio. Dovevamo raccogliere storie prestando massima attenzione alle parole e al non verbale, senza usare alcun registratore o appunto scritto – e talvolta gli incontri duravano molto, anche quattro ore! Poi dovevamo scrivere una bozza, restituirla e chiedere all’altro: ti riconosci? Ecco, credo di aver imparato così ad ascoltare molto e a trattare le storie con cura. 

E questa cura per le storie da raccontare è a dir poco palese nel romanzo. Ecco perché invito i lettori a sperimentare quanta empatia e ascolto dell’altro sia racchiuso in L’unico finale possibile. Grazie per l’intervista!

Intervista registrata al Salone del Libro - a cura di Gloria M. Ghioni

Ringraziamo l'autrice Paola Cereda, l'editore e l'ufficio stampa per l'occasione.