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"Goodbye Hotel" di Michael Bible è il luogo che abitiamo quando la verità diventa insopportabile

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Goodbye hotel



Goodbye Hotel
di Michael Bible
Adelphi, Maggio 2025

Traduzione di Martina Testa

pp. 156
€ 18 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

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“Vorrei scrivere la mia storia, o almeno la mia versione dei fatti, ma non riesco a smettere di guardare la neve. Questo posto lo chiamano Goodbye Hotel perché per tanta gente è l’ultimo domicilio e probabilmente sarà così anche per me.” (p. 21)

Lo sentiamo all’inizio del romanzo, l’assordante rumore della solitudine e quel punto cieco nella memoria, dove le storie iniziano a dissolversi. È da lì che scrive François, con una bottiglia che sa di muffa e la neve che, fuori, cade come un sipario. Goodbye Hotel è un romanzo che si sfoglia come un album di Polaroid scolorite: le immagini sono lì, ma tremano, si spostano, si duplicano. Michael Bible torna a raccontarci Harmony – e non è una città, ma uno stato d’animo. Un luogo interiore che sa di confine, di attese eterne e di giovani con gli occhi bruciati di desiderio.


Soprattutto questo romanzo ci racconta, a partire da un episodio drammatico, come un incidente, che cambia la vita dei protagonisti, François ed Eleanor, quale versione sceglieranno i due di quella stessa storia, per poter sopravvivere al trauma. Non sempre la verità che ci raccontiamo ha a che vedere con la realtà. Forse è proprio questo che Bible mette in scena, le architetture che nascono a partire da ciò che ci traumatizza e come decidiamo di credere a quelle costruzioni.


Ma possiamo anche dire che François è solo uno dei protagonisti, dei narratori o dei tanti alter ego di queste figure anonime della provincia americana. Sembra voler raccontare un fatto accaduto venticinque anni prima, ma finisce per parlare di tutto ciò che è stato taciuto: la nostalgia per le vite che non si sono vissute, le possibilità che si accartocciano come fogli bagnati, il tempo che si piega e si sovrappone, fino a diventare un unico presente sfocato. È una voce esausta, la sua, ma anche dolcissima, con quella tenerezza tipica di chi non ha più nulla da perdere – e forse per questo riesce a dire le cose con verità, sebbene sia la sua verità.


E poi c’è Harmony, dove tutto si confonde con un milione di altre sere, i personaggi sembrano galleggiare in una realtà liquida, slabbrata ai bordi. È un’America che sa di benzina stantia e panini fritti, dove l’amore è un tentativo disperato di esistere almeno per qualcun altro. In questo, il romanzo, diviso in cinque parti, vive in uno spazio liminale tra confessione e sogno. Harmony, la cittadina del Sud dove tutto ha origine e fine, è un luogo che sfugge alla geografia: è più un clima emotivo che un punto sulla mappa. Le sue sere si assomigliano tutte, eppure ogni sera può cambiare una vita. È un posto in cui le persone si sentono tutte, indistintamente, non scelte. Non amate. Non viste. Come se la solitudine fosse la vera forma dell’identità.


È come una città ideale (o anti-ideale), che sembra raccogliere l’eredità di tante altre città ideali della letteratura americana, dalla Yoknapatawpha di William Faulkner, una contea immaginaria nel Mississippi che ricorre in quasi tutti i suoi romanzi, dove convivono tempo storico e tempo mitico, passato e presente, verità e leggenda, alla Twin Peaks di David Lynch (ma anche Carver aveva popolato i suoi racconti di luoghi qualunque attraversati da epifanie improvvise). 

Anche le vite di François ed Eleanor sono due vite identiche a tutte le altre, ma con mille finali diversi, finali che li vedono morti, in fuga o semplicemente in attesa, a sedici anni come a quaranta. Aspettando qualcuno che possa dare un senso alla stantia quotidianità, alla violenza improvvisa di un padre, ad un’amicizia sbagliata e immaginaria con uno psicoterapeuta, alla dolcezza di un amore che si comprende solo quando tutto è irrimediabilmente perso, al senso di un dramma che brucia in un istante tutte le loro possibilità.


Questo libro è un luogo mentale, un punto di incontro tra le storie mancate e quelle inventate per sopravvivere ed è anche e soprattutto il regno di Lazarus, che non è un simbolo, ma è una tartaruga. Ma come spesso accade con Bible, non è importante cosa sia un personaggio, ma che cosa smuove. 


Lazarus è l’occhio interiore, il punto di rottura tra ciò che sembra e ciò che (forse) è. Una presenza che non ha bisogno di parlare per farci sentire che qualcosa sta cambiando. Il personaggio più inquietante – e poetico – del romanzo è questa tartaruga chiaroveggente, che resiste al tempo e allo spazio, ciclicamente cambia compagno e custode e non ha bisogno di dire, perché tutto passa attraverso la sua presenza silenziosa e antica. È testimone e oracolo, custode di una verità che non verrà mai completamente svelata. A lei si contrappone la parte reale e forse più fragile (almeno all'inizio) di quello stesso animale, Little Lazarus, la piccola tartarughina che Eleanor ha salvato e che le sopravvive, per diventare essa stessa esempio di ciò che resta indietro o che continua, quando il nostro piccolo universo va in frantumi.


Nonostante sia il personaggio più curioso del romanzo, questa tartaruga secolare è anche l’àncora e il punto di approdo di tutte queste vite, che proprio nell’incontrare a un certo punto una motivazione, un involontario senso di cura, nell’accogliere l’imponderabile, sotto forma di animale, esistono e si salvano.


Metafora del tempo, del ciclo vitale, dell’amore o di qualunque altra forma di speranza che possa salvarci e renderci vivi, Lazarus - non a caso chiamata così - è il cambiamento che ci sprona ma anche l’evoluzione che conteniamo in noi. Nel suo essere lenta e quasi estranea alle vite che turbinano intorno a lei, continua a cercare la fuga nella natura, nel silenzio, nella luce. 


Il guscio della tartaruga, ci dice François, è fatto di bugie e inganni. Ma protegge qualcosa. Bible ci suggerisce che, a volte, la verità è troppo fragile per stare nuda davanti al mondo: ha bisogno di un nascondiglio, di un’allegoria, di una seconda possibilità. Forse anche di un lettore disposto a crederle.


Con Goodbye Hotel, Michael Bible non scrive un romanzo da interpretare. Scrive un luogo da abitare. E in quel luogo, ognuno di noi trova un pezzo di sé: abbandonato, forse. Ma ancora vivo.


Samantha Viva