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Un romanzo comico e rispettabile: Due parole su "Poveri a noi" di Elvio Carrieri

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Poveri a noi
di Elvio Carrieri
Ventanas Edizioni, aprile 2024

pp. 214
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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Quando ero piccolo sentivo mio nonno esclamare «Pover’a nnui!», spesso intorno alle otto di sera, quando tutti noi ci ritrovavamo a casa sua. Quando lo diceva, il suo volto, sempre bonario e paffuto, si contorceva in una smorfia contrita che lo ingessava in un’espressione di rimpianto o di pietà riflessiva che io allora non capivo e che adesso mi sembra di aver addirittura assorbito. Alcune volte, però, quest’esclamazione aveva una sfumatura diversa, meno drammatica e più scherzosa, che, forse per la mancanza di tragicità, mi faceva ribollire il sangue e che solo da adulto, dopo averla definita come una forma autoironica creata per sopravvivere, ho imparato ad apprezzare. 

Bene, il romanzo di Elvio Carrieri (lo chiamo romanzo, anche se su questa definizione si può riflettere), pubblicato nel 2024 per Ventanas Edizioni, ha come titolo proprio la forma italianizzata di «Pover’a nnui!» (Poveri a noi), declinata in entrambe le sfumature che mio nonno le dava (e le espressioni che si facevano largo sul suo viso). Da una parte, è presente una particolare forma di rimpianto, che sfocia presto in quel senso di colpa che caratterizza il protagonista Libero De Simone (un senso di colpa che non è atavico, ma deriva dal fatto che da bambino non è riuscito a difendere da un pestaggio il suo amico Felice Caporaletti, auto chiamatosi Plinio il vecchio – bel soprannome, non è vero? –), e una forma di pietà. Una pietà duplice: c’è la pietà autoriale, che sfocia nel manifestato affetto per i personaggi principali della storia (scolpiti ad altorilievo, mai a tutto tondo), e c’è quella che si fa largo tra le pieghe del sarcastico snobismo del protagonista e che investe di tenerezza alcune sacche marginali della popolazione barese, anche queste sempre abbozzate e mai veramente approfondite in senso sociologico o politico («E io già me lo vedevo, il volto del signor Niko-golden retriever, assopirsi con dolcezza […]. Mi faceva una tenerezza disarmante, anche se non mi ascoltava», p. 43). Una pietà che, nonostante lo stile usato (o forse proprio per questo motivo), persiste, una «pietà oggettiva che ci agghiaccia», come scrisse Pagliarani più di sessant’anni fa. Dall’altra parte, è presente anche quell’ironia, quel tono scherzoso che alcune volte usava mio nonno per accompagnare la consapevolezza di poter far poco, ma di poterci comunque ridere su. Un’ironia nella voce del narratore, un’ironia che raramente è sottile, e che è declinata in una forma (auto)riflessiva, in un tono scherzoso, spesso altezzoso, che straborda in uno stile comico e grottesco interessante.

A ben guardare la peculiarità maggiore del libro si trova proprio nello stile comico, nella commistione linguistica e nell’allargamento lessicale di derivazione dantesca. L’Inferno, infatti, è sia presente sottotraccia, sia citato apertamente, ed è citato quello più comico e basso, quello delle Malebolge ovviamente. Si veda il passo parodico, per esempio, in cui è citato Inf. XVIII, 130-133: 

Di quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose, / e or s’accoscia e ora è in piedi stante. Taide è, la puttana che rispuose. / Mi aspettavo un boato da curva nord allo stadio San Nicola. Tra l’altro il Bari aveva non troppo tempo addietro bruciato l’ennesima possibilità di andare in serie A» (p. 44).

Ma il comico e il grottesco del libro nascono anche dallo stridore tra il linguaggio medio-alto, sentito come autorevole e letterario, e quello basso, dall’accostamento tra situazioni opposte, o percepite dall’autore e dal narratore come tali. Si veda, per esempio, il passo in cui il protagonista cerca di distrarsi e di non pensare a Letizia, una terapeuta di paese di cui si innamora, «perfetta commistione tra linearità corporea e imperscrutabilità tutta umana» (p. 37):

E al contempo nella mia testa attaccavano le campane, sentivo forte nelle orecchie i Carmina Burana intonati da Silvio Berlusconi, poi partiva Start Me Up, eseguita da un complessino bandistico composto da soli pregiudicati italiani di Casal di Principe. Insomma tutto il comico e il grottesco che potevano servire a distrarmi dal fatto che quella paesana intrigante mi stesse aspettando all’ingresso. (p. 39)

Oppure si pensi anche alle frasi in cui il narratore parla della sua passione musicale:

Amavo così voracemente la musica che ce n’era qualcuna che proprio non tolleravo. Era pur sempre mio diritto. Non come in letteratura. Lì, nel Lucio Rubino di turno, ormai passato alla politica, ma pure nei cosiddetti giovani neo-orfici, riuscivo sempre a intravedere qualcosa di positivo. In musica, purtroppo, m’investivo del ruolo del grande dittatore. Per questo mio atteggiamento da censore Plinio ancora mi sfotteva e quando diventavo intollerante mi gridava: “Awe, Benedetto Croce, si cacat l’chigghiun’”. (pp. 112-113)
Ma il comico del libro si muove anche attraverso i clichés, che si ripetono frequenti e che delle volte sono mascherati come intuizioni profonde del protagonista, altre come descrizione di una Bari «ormai ridotta cinicamente alla sua anima scheletrica e post-industriale, tormentata da scandali locali e da losche manovre politiche», come è scritto sull’aletta del libro.

Dunque, è il grottesco la caratteristica principale del libro, molto più della trama (che si potrebbe riassumere in poche battute e che ha la forma di una circonferenza), molto più dei personaggi che abitano le circa 200 pagine del libro, molto più del protagonista, nonché voce narrante, costruito come un perdente che ha, come è stato scritto da Camilla Longo Giordani, «tutte le storture che demarcano i millennials del nostro tempo» (su che cosa voglia dire i millennials del nostro tempo e sul fatto se questo sia vero o meno, si può riflettere), molto più di Bari, soggettiva e cangiante a seconda di chi la guarda (Letizia o Libero). È il comico il punto centrale di Poveri a noi, un grottesco che si muove nel pastiche linguistico, tra clichés stantii, con citazioni e riferimenti poetici (un titolo del capitolo è un omaggio a Valerio Magrelli, per esempio) e letterari.

Quando è uscita la notizia della dozzina finalista al Premio Strega, sono rimasto sorpreso dalla presenza di Poveri a noi. Più che sul merito, il sentimento di sorpresa si basava su alcune caratteristiche del romanzo che inizialmente mi sembravano andare in contrasto con la tendenza generale dei libri dei recenti finalisti. È un libro imprescindibile? È un libro costruito perfettamente? È un libro che rientra nel gusto contemporaneo, questo scritto dal più giovane mai entrato nella dozzina finalista dello Strega? Inizialmente, la mia risposta è stata negativa, poi, però, ho compreso che mi sbagliavo, non per la sua costruzione o per la qualità, ma perché ho capito che rientrava pienamente in una delle tendenze recenti dei libri finalisti.
Non si può sapere se questo sia o meno un libro che rimarrà nella memoria (qualche dubbio rimane, anche se si possono spendere due parole a riguardo), e certamente si può riflettere sulla costruzione di questo libro. Se lo stile, nonostante alcune cadute, in qualche modo tiene e si rivela a tratti interessante, sulla costruzione dell'opera si potrebbero riusare dei versi di Magrelli, esplicitamente citato nel titolo del capitolo 2, Aequator lentis: «In questo cantiere / ancora non distinguo / le mura incerte dall’impalcatura. / […] / Nella polvere e nel legname, / fra le grida dei carpentieri, / non arrivo a separare / l’oggetto dal progetto / dal calcolo il prodotto».

Ma, se si guarda bene, quale recente libro candidato allo Strega lo è? Poveri a noi è un’opera del nostro tempo, un’opera basata su un realismo non rivoluzionario, assorbito, in cui è evidente la distanza che l’autore ha con alcuni gesti, alcune situazioni da lui scritte e descritte, una distanza che caratterizza sempre più le ultime pubblicazioni. Alla fine, nonostante le «storture da millennial», nonostante il comico che, differenziandolo dallo stile predominante della narrativa contemporanea, lo inserisce comunque in una categoria in passato già premiata, e nonostante le intuizioni e i pensieri del protagonista, che confermano le idee precostituite del lettore più che sorprenderlo e spingerlo a riflettere, cosa ha questo «romanzo» in meno degli ultimi candidati al Premio Strega? Nulla, Poveri a noi è un libro pienamente inserito nel gusto rispettabile che caratterizza i candidati del Premio. Non possono, allora, non risuonare i versi che Pasolini declamò in occasione dell’edizione del 1960 e che sembrano essere ancora attuali, nonostante i sessantacinque anni che ci separano: «non voglio / spingervi contro l’ideologia ufficiale: / coloro che ne servono la restaurazione / nello stile, sono rispettabili scrittori».

Giorgio Pozzessere