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«La narrazione non è mai neutrale»: "Tremore", il nuovo, frammentato, sperimentale romanzo di Teju Cole

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Tremore
di Teju Cole
Einaudi, aprile 2024

Traduzione di Gioia Guerzoni

pp. 216
€ 19,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Certi libri necessitano di sedimentare più a lungo prima di riuscire a parlarne e scriverne in modo che ci si augura essere efficace e utile a un discorso letterario più ampio. È il caso sicuramente di Tremore, l’ultimo romanzo dello scrittore afroamericano Teju Cole, appena approdato nelle librerie italiane per Einaudi e che fa seguito agli altri due romanzi dell’autore, il celebre esordio Città aperta (2013) e Ogni giorno è per il ladro (2014). Tradotto da Gioia Guerzoni, è un testo sfidante – e non fatico a immaginare lo sia stato ancor di più il lavoro di traduzione, la cui resa però è ineccepibile – che scardina molti stereotipi sul romanzo e squarcia il velo tra finzione e realtà. Nella bella intervista che ha concesso a Giulio D’Antona e uscita qualche settimana fa su «TuttoLibri», Teju Cole inquadra molto bene l’essenza di questo suo ultimo lavoro letterario:

Volevo scrivere qualcosa in difesa del piacere. Volevo contrapporre, o meglio giustapporre, al ragionamento alto, alla contemplazione della gravità del mondo, momenti di assoluta spensieratezza.

Tremore, infatti, è un romanzo che giustappone come sottolinea Cole la gravità di certe tematiche, spunti e accadimenti, all’assoluta spensieratezza di altre scene, il piacere di abbandonarsi alla musica – presenza fondamentale anche in questo romanzo e grande passione dell’autore. Un connubio particolarmente interessante che rende viva e rinnova la materia narrativa, nel tentativo di superare la dicotomia alta/bassa letteratura. Ed è, si diceva, un testo sfidante, «incollocabile», come lo definisce ancora D’Antona. Incollocabile al pari del suo autore, che rifugge etichette e incasellamenti troppo rigidi: romanziere, artista, insegnante presso una delle più prestigiose università mondiali (Harvard), critico, storico dell’arte, fotografo. Teju Cole è molte cose e in modo simile lo sono anche i suoi romanzi che tengono insieme elementi tradizionali e un impianto narrativo che si apre alla sperimentazione, dentro cui è facile perdersi se si abbassa anche solo per un attimo la soglia dell’attenzione. Una lettura, quindi, che richiede un certo impegno e che si pone perciò in controtendenza con la fruizione imperante, ricollocando l’arte e la letteratura in una prospettiva diversa. Sfidante, quindi, non sempre soddisfacente fino in fondo, ma di certo importante, unica, vitale e acuta.


Tremore non è un romanzo perfetto: la narrazione frammentata, il costante cambio di registro e punto di vista talvolta sembrano scivolare nell’esercizio letterario; alla fine però, emersi dal testo e messa la giusta distanza emotiva, ciò che resta è un testo notevole, che non può lasciare indifferenti, tanto dal punto di vista tematico che formale. Sperimentale pur rifiutando di esserlo, è un testo per sua natura stratificato, che attinge ancora una volta all’esperienza personale dell’autore – le origini in Lagos, il ruolo di insegnante in una comunità quasi esclusivamente bianca, la professione artistica, la passione per la musica – per farsi altro. E in cui la questione razziale è sicuramente uno dei perni centrali.

Ciò detto, sa per certo che i bianchi si trovano a loro agio in ambienti completamente bianchi. Non notano l’assenza dei neri nei loro musei e nelle loro scuole, nei ristoranti, nei film che guardano, nei libri che leggono, negli studiosi che citano. Anche in un mondo puramente immaginario, anche in un mondo futuristico, il loro standard è monocromatico. È come se inserire persone di colore nella finzione o immaginarle nel futuro fosse partecipare a un goffo tentativo di equilibrio politico, come se la presenza dei neri avesse senso solo e unicamente per rappresentare la «nerità». (p. 50)

Questo brano condensa piuttosto efficacemente il sentimento che attraversa tutto il libro e la riflessione che lo percorre. Nato in Lagos e da trent’anni a New York, Teju Cole fa della questione razziale uno dei centri della sua riflessione personale e artistica, osservando la realtà contraddittoria entro la quale si muove, creando sulla pagina le sue storture e riflettendovi, come in questo caso, da angolature meno convenzionali o di frequente indagate. Essere nero in un mondo dominato dai bianchi, il razzismo che pervade la società in ogni suo aspetto e forma, dalla più evidente a quelle sotterranee, è l’elefante nella stanza che Teju Cole non ha mai ignorato.

Come si può vivere senza possedere gli altri? Per chi è fatto questo mondo? I bianchi ci hanno insegnato che il mondo può essere dominato con la religione e con la guerra, collezionato per piacere e per motivi di studio, esplorato viaggiando, posseduto da chiunque abbia voglia di rivendicarne e difenderne la conquista. Si può vivere senza cannibalizzare le vite degli altri, senza ridurli a mascotte, oggetti affascinanti, semplici termini nella logica di una cultura dominante? (p. 69)

Tremore è un romanzo politico, è un romanzo di denuncia? Sì, di getto risponderei di sì. Lo è nel racconto di un fotografo affermato la cui presenza in una strada residenziale è percepita come una minaccia; lo è nel ripercorrere le atrocità di un «paese costruito sul genocidio», la realtà storica dello schiavismo e le sue conseguenze; lo è, ancora, nello sguardo di superiorità di un mondo biancocentrico che trafuga o acquista pezzi d’arte dal continente africano con la scusa di saperli meglio preservare, noncurante delle persone e della cultura entro cui quell’arte si è sviluppata:

Soprattutto se le persone in questione provengono dal continente africano, la loro ingegnosità può essere apprezzata, i loro manufatti acquisiti e sottoposti ad analisi, ma le loro vite reali non vengono tenute in conto. Cosa significa interessarsi all’arte ma non alle persone che l’hanno creata? (p. 99)

Lo è, dunque, nella misura in cui l’arte, la letteratura, serve ad aprire i nostri occhi sulle complessità del mondo entro cui ci muoviamo, consapevoli di un privilegio di cui spesso non siamo particolarmente consapevoli. Qualche sera fa, in occasione dell’incontro mensile del mio amato gruppo di lettura, riflettevo sul fatto che il corpo femminile è qualcosa di cui non possiamo mai dimenticarci, oggetto di attenzioni, sguardi, commenti, in pericolo e in vista, perennemente. Qualcosa di simile, credo, accade al corpo nero: quella sensazione di pericolo costante, di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, perfino di essere sbagliato in un certo senso. Teju Cole intreccia al discorso sul razzismo dietro la facciata di perbenismo quello sul passato schiavista, la realtà post coloniale, la violenza del mercato artistico, e riesce a farlo senza proclami ma con un testo che, pur nei suoi limiti, ci sbatte in faccia tutta l’ipocrisia del mondo e della società cui noi stessi pure partecipiamo. È quel tipo di riflessione che comporta un’autocritica dalla quale difficilmente usciremo immacolati.


Accanto, o meglio, intrecciato, al discorso razziale, ci sono il racconto di un outsider, teso tra due mondi – la Nigeria dell’infanzia, gli Stati Uniti dove ha studiato, lavora e vive – , una relazione attraversata da una sottile tensione sotterranea che non si esplicherà mai davvero sulla scena ma che percepiamo dalla prima all’ultima pagina, persone amate e perdute, trascrizioni di una conferenza sulla violenza dell’arte, viaggi e ritorni, feste, amici, moltissima musica soprattutto Bach e Coltrane. È l’intreccio di tutti questi elementi e altri ancora, la vita e il pensiero intimo di un uomo che corre libero sulla pagina e si lega ad altre storie, altre voci, altri sguardi, in una narrazione caleidoscopica, che a ogni capitolo ci chiede di imparare di nuovo l’universo narrativo in cui ha deciso di farci muovere, di non abbassare mai l’attenzione per non perdersi nelle trame di tutte queste vite.


Lo stile con cui Teju Cole sceglie di raccontare questa storia, la modalità narrativa adottata, è l’unica effettivamente possibile per renderla appieno, nonostante le difficoltà, i difetti, la confusione a tratti. Inizia con la terza persona e rivolgendosi a un non meglio specificato “tu” – presto scopriremo di chi si tratta – per poi cambiare registro, usare la prima persona per le registrazioni della conferenza di Tunde, chiudendo poi con le voci e i punti di vista alternati del protagonista e della moglie Sadako. In mezzo, un capitolo scandito da ventiquattro voci per altrettante storie dal Lagos ascoltate da Tunde durante uno dei suoi viaggi, tutte diverse, un microcosmo di uomini e donne da cui impossibile districarsi ma anche ammaliante.
In quella tensione di cui all’inizio, la giustapposizione tra gravità e spensieratezza, i pericoli di un mondo razzista e la libertà della musica, c’è il ritmo di Teju Cole, scrittore inafferrabile.


Debora Lambruschini